È subordinato il rapporto del lavoratore "in nero" che osserva gli orari e le direttive al pari dei colleghi.
Decisivi ai fini del verdetto i testimoni e i documenti firmati in azienda dall'interessato. Ma niente ferie pagate senza prova rigorosa di mancata fruizione Non c'è dubbio: costituisce un rapporto subordinato a tempo indeterminato quello del lavoratore che ha prestato per anni servizio "in nero" presso l'azienda di un parente, come confermano i testimoni e le tracce della sua attività disseminate in sede e fuori: pesano in tal senso le dichiarazioni che confermano come l'interessato abbia osservato gli orari di lavoro e le direttive del capo al pari dei colleghi dipendenti e, inoltre, le bolle di accompagnamento della merce firmate dal lavoratore non registrato, un autista impegnato nel recapito dei prodotti. Ma per ottenere anche il riconoscimento delle altre pretese, inerenti ferie, permessi e festività asseritamente non goduti serve la prova rigorosa della mancata fruizione durante gli anni di servizio. È quanto emerge dalla sentenza 9599/13, pubblicata il 19 aprile dalla sezione lavoro della Cassazione.
Elementi tipici
Il ricorso dell'azienda è accolto contro le conclusioni del pm, ma soltanto per la questione del riconoscimento delle ferie non godute. Sarà il giudice del rinvio a stabilire se il prestatore d'opera ha diritto o meno alle somme pretese, compreso il fronte della determinazione dell'orario di lavoro osservato. Certo è che il lavoratore ottiene il riconoscimento del lungo periodo in cui ha prestato servizio in nero, circa sei anni. Il fatto che l'interessato sia comunque un parente del titolare dell'impresa non autorizza affatto a far presumere la gratuità delle prestazioni: il grado di parentela non risulta documentato in giudizio e comunque non si tratta di congiunti conviventi. Né giova all'azienda invocare il (presunto) valore confessorio di alcune dichiarazioni contenute nel libretto sanitario del lavoratore, dalle quali emergerebbe un impegno saltuario presso l'impresa "incriminata" (si tratta di affermazioni verosimilmente tendenti a "proteggere" il parente titolare, con il quale all'epoca il lavoratore era in buoni rapporti). A inchiodare l'azienda è l'attività svolta in sede dall'interessato, pari in tutto a quella dei dipendenti dell'impresa con le carte in regola: le dichiarazioni dei testi escussi lo confermano; il giudice del merito, dunque, rileva la sussistenza degli elementi tipici che connotano la natura subordinata del rapporto di lavoro. La parola torna alla Corte d'appello per la questione-ferie.
Dario Ferrara (da cassazione.net)