Nota alla sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 6.3.2013
1) Premessa
Con la sentenza del 6 marzo 2013 n. 33 la Corte Costituzionale riafferma il principio secondo cui la tutela del conseguimento del minimo pensionistico costituisce un bene giuridico costituzionalmente protetto.
In virtù dell’articolo 38, secondo comma, della Costituzione, cosi come attuato nella legislazione di settore, il dipendente pubblico che al raggiungimento del limite massimo di età per il collocamento a riposo non abbia compiuto il numero degli anni richiesti per ottenere il minimo della pensione ha il diritto di rimanere in servizio, su domanda, fino al conseguimento di tale anzianità e comunque non oltre il settantesimo anno di età.
Tale diritto è pertanto sottratto alla discrezionalità del legislatore che può quindi esplicarsi solo in ordine all’individuazione dell’entità delle prestazioni previdenziali e nella modifica delle diverse figure professionali interessate.
2) Il limite al conseguimento del minimo pensionistico
Unico limite al conseguimento del minimo pensionistico è costituito dalla subordinazione della permanenza in servizio all’accertamento della sussistenza dell’energia compatibile con la prosecuzione del rapporto del lavoro.
Tale delimitazione è stata dalla legislazione ordinaria da prima individuata nel raggiungimento dei sessantacinque anni per poi essere spostata ai settanta anni in considerazione del complessivo miglioramento delle condizioni di vita e di salute dei lavoratori.
L’affermazione di tale principio non ha interessato in maniera omogenea l’intero settore pubblico, lasciando per determinate categorie una disciplina discriminatoria e penalizzante del diritto al conseguimento del minimo pensionistico.
Nel caso specifico la Corte ha preso atto di una disparità di trattamento esistente ai fini del conseguimento del minimo pensionistico tra la disciplina prevista per i dirigenti sanitari e altre categorie di pubblici impiegati.
Per i primi il combinato disposto degli articoli 15-novies, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 502 e art. 16, comma 1, primo periodo del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 prevede la facoltà per la dirigenza sanitaria di restare in servizio per il massimo di un biennio oltre il limite d’età per il collocamento al riposo impedendo, pertanto, agli appartenenti della stessa categoria di rimanere in servizio, sempre al medesimo fine, fino al maturare del quarantesimo anno di servizio effettivo con i limiti del raggiungimento del settantesimo anno d’età e dell’aumento del numero dei dirigenti.
Pertanto, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto sopracitato in relazione al periodo di vigenza dello stesso, considerando invece legittimo l’intervento operato dalla legge 183/2010 che in merito alla categoria dei dirigenti medici e del ruolo sanitario del servizio sanitario nazionale, ivi compresi i responsabili di struttura complessa, ha disposto che il limite massimo di età per il collocamento a riposo dei dirigenti è stabilito al compimento del sessantacinquesimo anno di età ovvero a istanza del’interessato al maturare del quarantesimo anno di servizio effettivo. In ogni caso il limite massimo di permanenza non può superare il settantesimo anno di età e la permanenza in servizio non può dar luogo ad un aumento del numero dei dirigenti.
3) La sentenza e il contesto di riferimento.
A margine del commento alla sentenza possono poi porsi alcune riflessioni concernenti il contesto complessivo in cui la pronuncia viene a collocarsi.
La salvaguardia del diritto al conseguimento del minimo pensionistico sembra essere in linea con la piena implementazione del sistema contributivo realizzato dalla legge 201/2011 giacché garantisce il risultato a cui è finalizzata la contribuzione.
Per l’appunto, la riaffermazione della possibilità di rimanere in servizio derogando ai normali limiti di età sembrerebbe valorizzare la funzione assicurativa attribuita da parte della dottrina al rapporto giuridico previdenziale . Tuttavia, sembra necessario e non procrastinabile coordinare l’affermazione del principio con una disciplina generale delle relazioni tra generazioni.
Il principio in questione oltre al fondamento costituzionale sembra trovare una legittimazione giuridica anche nel Trattato di funzionamento dell’unione europea .
Tale affermazione però devo tener conto del principio di solidarietà intergenerazionale. Il prolungamento dell’attività lavorativa può’ non essere generalizzato ma deve tener necessariamente conto del tipo d’attività svolta e del necessario ricambio generazionale. In altri termini, adeguatezza e sostenibilità del sistema pensionistico non costituiscono elementi autonomi sganciati dal complessivo modello ordinamentale delle relazioni sociali intergenerazionali.
Pertanto, l’adeguatezza e sostenibilità delle prestazioni sembrano presupporre la creazione di un modello che agevoli l’accesso al periodo pensionistico di particolari categorie di lavoratori favorendo al contempo l’ingresso nel mondo del lavoro delle nuove generazioni. In questo senso la promozione di scelte volontarie e flessibili da parte dei lavoratori per gli ultimi anni che precedono la pensione potrebbe rappresentare un elemento virtuoso che, oltre a migliorarne le condizioni di vita, avrebbe fra l’altro l’obiettivo di promuovere l’occupazione giovanile. La proposta Ichino, concernente l’Active ageing, diretta a istituire le flessibilità e gli incentivi necessari per aumentare la domanda di lavoro e favorire l’invecchiamento attivo pare pertanto andare in questa direzione.
Tuttavia, tale ultima proposta pare trascurare l’opportunità di implementare lo strumento nell'ambito del settore pubblico.
Per quanto riguarda il settore pubblico è stato notato, seppur forse da una diversa prospettiva, che “il mancato coordinamento da parte del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato tra norme di pensioni e norme sulla razionalizzazione delle pubbliche amministrazioni mostra quanto siamo distanti dalla spending review e da una logica di piani industriali.
A questo proposito, non può non notarsi che la conciliazione delle istanze di ringiovanimento della compagine pubblica con quelle concernenti l’agevolazione di percorsi per l’accesso alla pensione per attività particolarmente disagiate sembrerebbe costituire l’occasione per un piano di riqualificazione della spesa pubblica e di ristrutturazione dell’apparato organizzativo in grado di aumentare il livello di efficienza e d’equità dell’intero sistema. Un piano con tali obiettivi e finalità sembra essere più facilmente realizzabile dall’apparato pubblico che da un’impresa privata.
La tendenziale inelasticità dei bisogni garantiti dalla P.A, la necessaria realizzazione del principio di continuità e doverosità dell’azione amministrativa e da ultimo, la stessa dimensione della platea dei lavoratori pubblici sembrano cioè costituire un contesto in cui esplicare una programmazione pluriennale intesa come scelta di priorità per un’azione sinergica tra pubblico e privato nel lungo periodo al fine di intercettare alcune macro tendenze sociali.
In altri termini, l’obiettivo della conciliazione dell’aumento dell’aspettativa di vita con il prolungamento dell’attività lavorativa sembra poter essere garantita da una serie di opportunità di impiego flessibili e opzionali che il datore di lavoro pubblico sembrerebbe poter meglio individuare in una prospettiva di futura generalizzata applicazione dello strumento.
Tale tipologia di affiancamento nell’ambito dell’amministrazione pubblica permetterebbe non solo un ricambio generazionale ma garantirebbe un trasferimento di conoscenze e professionalità che generalmente si perdono e che difficilmente possono sostituirsi con la normale formazione.
Tutto ciò sempre che si sia in grado e si voglia perseguire un progetto di rilancio dell’azione pubblica diretta a promuovere l’attività privata e soddisfare le istanze sociali attraverso una reale opera di rinnovamento.
Marco Maria Carlo Coviello (da filodiritto.com del 22.3.2013)