Ennesimo autorevole intervento interpretativo della Sesta Sezione della Corte di Cassazione, in relazione al canone interpretativo della quantità di sostanza stupefacente, che, da taluna parte, viene individuato – a torto - come elemento che costituisce una presunzione legale (per i più iuris tantum, per qulacuno iuris et de iure) tale da provocare un'inversione dell'usuale regime processuale dell'onere della prova. In buona sostanza.
Qualche frangia di una giurisprudenza tanto minoritaria, quanto ostinata, persiste nell'affermazione che il limite tabellare, introdotto expressis verbis dalla L. 49 del 2006, ai fini del consumo personale, integri un elemento di colpevolezza presunta-relativa, da porre a carico del detentore, che può venire vinto esclusivamente, solo con il ricorso ad una prova contraria fornita dall'indagato/imputato.
L'opinione venutasi a formare prevalente, nel tempo e confermata dalla sentenza in commento, non è fortunatamente così orientata.
La Suprema Corte con la sentenza 67631/13 del 10 gennaio scorso, ha, infatti, colto l'occasione per ribadire alcuni punti di principio che sono destinati ad acquisire valore di assoluta intangibilità.
Censurano, infatti, i giudici di legittimità due tipi di opinione che si sono fatti, erroneamente e purtroppo, strada nella quotidianità forense.
La prima opinione criticata, è quella che ritiene di potere tradurre la norma sulla detenzione ad uso esclusivamente personale come espressione di una “qualsiasi forma di prova legale”, vale a dire in forma di presunzione di colpevolezza.
La seconda sostiene, invece, che il superamento della quantità tabellarmente stabilita, costituisca un indice probatorio assolutamente sintomatico della destinazione dello stupefacente alla cessione in favore di terzi.
In relazione al primo profilo, il giudizio della Corte appare tranciante ed indubbiamente lineare.
La norma in questione risulta, infatti, essere stata mal concepita, sia concettualmente, che semanticamente.
Essa, alla luce di una lettura strettamente filologica, pare introdurre nell'ordinamento penale, una presunzione di uso non personale, fondata su di una serie di previsioni (“....quantità....modalità di frazionamento, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al comportamento frazionato...ovvero altre circostanze dell'azione..”) che risultano tra loro disomogenee.
Osserva, infatti, acutamente la Corte, che se il criterio della quantità può forse apparire (pur nella sua concezione che implica una ampia discrezionalità dell'interprete) di carattere determinato, tutti gli altri canoni non paiono affatto informati a tale criterio, palesandosi, invece, come “indeterminati ed indeterminabili”.
Al medesimo tempo, il giudice di legittimità, in sentenza, conferisce medesimo ed uguale valore probatorio a tutte le ricordate circostanze indicate dal comma 1 bis, attraverso la loro sostanziale e formale equiparazione, in forza della considerazione che esse si applicano – nella comune interpretazione giurisdizionale – in forma assolutamente disgiunta.
Muovendo dalle osservazioni che precedono, quindi, la Sesta Sezione esclude che l'articolo 73 comma 1 bis dpr 309/90, introduca nel sistema legislativo, che regola la materia degli stupefacenti, una qualsiasi forma di presunzione, sia assoluta, che relativa.
L'assenza del requisito della determinatezza, se da un lato può esaltare la discrezionalità tecnico-ermeneutica del giudicante, dall'altro, ai fini che ci occupano, finisce per costituire un vizio che colpisce alcuni parametri (“circostanze dell'azione, confezionamento et similia”), rendendoli incompatibili proprio con le caratteristiche proprie e tipiche delle presunzioni legali, soprattutto se evocate come assolute.
Il regime delle presunzioni legali, infatti, postula che il giudice, per addivenire alla propria decisione possa avvalersi di parametri normativi predeterminati.
Tale procedimento logico permette, infatti, di considerare, come naturalisticamente esistente, un fatto, una condotta, oppure un evento, sulla base dell'accertamento concreto di un'altra circostanza predeterminata legislativamente.
Si tratta, quindi, di una forma di giudizio, volta a facilitare l'assolvimento dell'onere della prova da parte di chi ne è onerato, trasferendo sulla controparte l'onere della prova contrario (Cfr. ex plurimis Cons. Stato Sez. V, 03-12-2012, n. 6161, Ci. s.r.l. c. Ri.Ca. e altri).
Ciò non di meno, appare irrinunciabile il principio che il parametro legislativo, posto a fondamento di una presunzione, debba articolarsi necessariamente ed indefettibilmente su indicazioni precise ed insuscettibili di una interpretazione o di una valutazione – del giudice - che possa risultare adeguata o differente a seconda dei casi.
Ritiene, chi scrive, che la necessità che il paradigma normativo – testata d'angolo dell'eventuale presunzione – debba apparire assolutamente chiaro (ed anche elevatamente rigido).
Una spiccata flessibilità dello stesso (con adeguamento a seconda delle situazioni) finirebbe a minare irreparabilmente l'insostituibile carattere di certezza (che esso deve presentare) ed a svuotarlo di pregnanza e significato in relazione alla funzione che esso deve assolvere.
In quest'ottica, non è peregrino, quindi, sostenere che il requisito della “quantità”, anche se pare offrire – nel suo complesso – una condizione di minore incertezza, rispetto agli altri canoni ermeneutici, introdotti dal legislatore del 2006, per l'accertamento della destinazione ad uso personale dello stupefacente detenuto, non possa sfuggire, in teoria a dubbi e censure di parziale indeterminatezza.
Il requisito della quantità, così come inteso dal comma 1 bis dell'art. 73 dpr 309/90, costituisce, infatti, all'evidenza, una categoria, non tassativamente delineata e definita, dal legislatore, nella sua concreta essenza numerica.
Esso appare, invece, un concetto complessivo, a vocazione universale, idoneo a ricomprendere al proprio interno diverse e distinte opzioni aritmetiche, che possono subire mutazioni a seconda della sensibilità, delle convinzioni culturali o delle opinioni del singolo giudice, in ordine al tetto massimo di quantità detenibile dal singolo.
Ad ogni buon conto, le valutazioni sin qui svolte e pure i dubbi avanzati, rafforzano la tesi della Corte, la quale ripudia, nella fattispecie, la configurazione di una presunzione assoluta, che sarebbe, pertanto, assolutamente invincibile ed impermeabile a qualsiasi prova contraria.
Altrettanto chiara risulta la posizione della Corte, in relazione al secondo profilo dedotto, e cioè per quanto attiene alla negazione di una presunzione di carattere relativo (“iuris tantum”).
Sul punto sembrano sufficienti poche parole.
Esse si rifanno ai concetti già affrontati, in relazione al tema precedente della indeterminatezza della maggioranza dei canoni valutativi, che la disposizione di legge seleziona espressamente.
Nello specifico, il Collegio evidenzia – con puntigliosa precisione – proprio il carattere di sussidiarietà indiretta dei parametri in questione, nessuno escluso, ed ivi ricompreso anche il dato ponderale della “quantità”.
In concreto, il superamento del limite tabellare, (così come gli altri criteri) può risultare di ausilio per il giudice, in quanto idoneo a suscitare un “ragionamento induttivo”, senza, però, che esso introduca effettivamente alcuna forma di “automaticità” in ordine alla prognosi di destinazione in favore di terzi, dello stupefacente accertatamente detenuto.
L'insieme dei dati, sin qui più volte ricordati, non costituisce, quindi, (né inteso come gruppo, né considerati individualmente), forma alcuna di paradigmi di prova legale.
Deriva, pertanto, che la valutazione della destinazione ad uso esclusivamente personale di sostanze stupefacenti meramente detenute, non può sfuggire al principio generale vigente in materia penale dell'onere della prova, che è posto a carico della pubblica accusa.
Non viene, quindi, sancita alcuna inversione dell'onus probandi, in proposito, salvo la sussistenza del diritto-dovere alla controprova (cd. allegazione) da parte della persona indagata-imputata, che intenda dimostrare, a fronte di elementi a lei sfavorevoli, la liceità penale della propria condotta.
Carlo Alberto Zaini (da diritto.it del 22.2.2013)