venerdì 22 marzo 2013

Alienazione genitoriale accertata non basta a revocare potestà

Con la sentenza n. 7041 del 20 marzo 2013, la Cassazione afferma il principio per cui il giudice di merito chiamato a dirimere una controversia sull’affidamento dei figli minori deve valutare attentamente la situazione di fatto, motivando i rilievi delle parti, prima di revocare la potestà genitoriale e disporre l’allontanamento coatto dei figli.
Nel caso concreto, la decisione del giudice del merito di disporre l’affidamento del minore ai servizi sociali risultava aderente alla valutazione clinica compiuta dal consulente tecnico di ufficio che rivelava la sussistenza nel minore di una «sindrome da alienazione parentale» non riconosciuta dal manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, senza che il giudice stesso verificasse il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che devia dalla scienza medica ufficiale.
Il tema affrontato dalla Corte attiene dunque alla condizione patologica del minore, imputata unicamente alla condotta della madre «alienante» che aveva indotto il figlio ad un progressivo allontanamento dal padre, e alla incidenza di tale condizione patologica sulla decisione di revoca della potestà genitoriale e di affidamento del minore presso una comunità protetta al fine di ricostruire gradualmente i rapporti con il padre.
La «sindrome da alienazione parentale» (o PAS, dall’acronimo di Parental Alienation Syndrome) è una controversa e ipotetica dinamica psicologica disfunzionale che, secondo le teorie dello psichiatra statunitense Gardner, si attiverebbe sui figli minori coinvolti in contesti di separazione e divorzio conflittuali dei genitori, non adeguatamente mediati. Secondo Gardner, la PAS sarebbe frutto di una supposta «programmazione» dei figli da parte di un genitore patologico (genitore cd. «alienante»), una sorta di «lavaggio del cervello» che porterebbe i figli a perdere il contatto con la realtà degli affetti e ad esibire astio e disprezzo ingiustificato e continuo verso l’altro genitore (genitore cd. «alienato»). Costituirebbe, dunque, il risultato di una campagna di denigrazione nei confronti del genitore non affidatario perpetrata dal genitore affidatario o con cui vive il minore.
La PAS è oggetto di dibattito ed esame, sia in ambito scientifico che giuridico, fin dal momento della sua proposizione nel 1984; essa non è, infatti, riconosciuta come un disturbo psicopatologico dalla grande maggioranza della comunità scientifica e legale internazionale, ponendosi in evidenza i rischi della sua applicazione in ambito forense, in quanto «in grado di minacciare l’integrità del sistema penale e la sicurezza dei bambini vittime di abusi».
In considerazione delle descritte criticità, il Giudice delle Leggi osserva come sotto il profilo del percorso motivazionale che la sorregge, la decisione della Corte di merito risulti inficiata, in quanto recepisce integralmente le conclusioni della CTU, in ordine alla ricorrenza, a seguito di accertamento diagnostico, della sindrome da alienazione parentale nel minore, senza esaminare le censure, specificamente proposte, in relazione alla validità sul piano scientifico, di questa controversa patologia. Dunque il provvedimento impugnato è apparso alla Cassazione intimamente correlato alla diagnosi di PAS, ritenendosi rispondente a precise esigenze terapeutiche l’allontanamento del minore alla mamma, attribuendogli un «forte conflitto di fedeltà nei confronti della madre» e «un ingiustificato rifiuto di rapporti con il padre».
Ulteriore principio disatteso dalla Corte d’Appello riguarda la necessità che il giudice del merito, ricorrendo alle proprie cognizioni scientifiche, ovvero avvalendosi di idonei esperti, verifichi il fondamento, sotto il profilo scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale. Né, sostengono gli Ermellini, il rilievo secondo cui, in materia psicologica, il processo di validazione delle teorie può non risultare agevole «deve indurre a una rassegnata rinuncia, potendosi ben ricorrere alla comparazione statistica dei casi clinici».
Soprattutto in ambito giudiziario, conclude la Corte, non possono adottarsi soluzioni prive del necessario conforto scientifico, come tali produttive di danni ancor più gravi di quelli che le teorie ad esse sottese, non prudentemente e rigorosamente verificate, pretendono di scongiurare.

Anna Costagliola (da diritto.it del 22.3.2013)