È quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, che con sentenza n. 17652 del 19 luglio 2013, hanno respinto il ricorso proposto da un legale.
Questi i fatti. Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lucca infliggeva ad un avvocato la sanzione disciplinare della sospensione dalla professione forense per sei mesi poiché aveva agito in violazione di molti principi del codice di deontologia forense, quali i doveri di probità, dignità e decoro, di lealtà e correttezza, fedeltà, di diligenza, di fiducia, di informazione, di gestione di denaro altrui, di restituzione di documenti, di richiesta di pagamento, di patto di quota lite, di obbligo di corrispondenza con il collega.
La violazione dei suddetti principi era stata determinata dal fatto che il legale non aveva dato alcun esito, se non dopo ben otto mesi e diversi solleciti, alle ripetute richieste di informativa, da parte del legale di controparte, sullo stato della pratica relativa ad una richiesta di risarcimento del danno; egli, inoltre, aveva omesso di comunicare al cliente ed ai suoi procuratori, di aver sottoscritto una quietanza che prevedeva la definizione del danno per complessivi euro 35.000,00 (oltre euro 5.000,00 per la liquidazione del suo compenso). Essendo all’oscuro di tale situazione il cliente aveva manifestato la propria accettazione per il minore importo di euro 25.000,00.
Il legale aveva, dunque, indebitamente trattenuto le somme spettanti al cliente e non aveva reso alcun conto della gestione operata.
Nel proprio ricorso per cassazione, il legale ricorrente affermava che il Consiglio Nazionale Forense non aveva tenuto conto della memoria depositata in sede di discussione, omettendo, inoltre, di specificare le ragioni delle ascritte violazioni deontologiche. Non si era tenuto, infine, conto della sentenza penale che l’aveva assolto dal reato di patrocinio infedele di cui all’art. 380 c.p. per insussistenza del fatto e ove si dichiarava di non doversi procedere, in ordine al reato di appropriazione indebita, per remissione della querela.
La Suprema Corte di cassazione, tuttavia, rigettando il ricorso proposto, ha ritenuto legittima la sospensione dalla professione per sei mesi disposta nei confronti dell’avvocato, impossessatosi di somme della società rappresentata.
“Da un raffronto tra le incolpazioni ascritte alla ricorrente – hanno affermato i giudici –, ritenute dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e confermate dal Consiglio Nazionale Forense, e quelle oggetto della sentenza penale emerge che tra gli addebiti disciplinari non vi è quello riferibile al reato di patrocinio infedele, dal quale la ricorrente è stata assolta, mentre la statuizione di non doversi procedere per remissione della querela in ordine all’imputazione di appropriazione indebita, non spiega alcuna efficacia in ordine alla sussistenza del fatto come accertato dalla decisione impugnata. L’impossibilità di procedere ad un accertamento d responsabilità in sede penale, per il venir meno di una condizione di procedibilità, infatti, lascia inalterato l’ambito della valutazione rimessa al CNF, così come ininfluente sul piano delle contestazioni disciplinari, risulta l’affermazione contenuta nella sentenza in ordine all’inesistenza di un rapporto professionale tra il querelante ed il ricorrente”.
Biancamaria Consales (da diritto.it del 23.7.2013)