La rilevanza penale dell’espressione "ti ammazzo", in base alla norma di cui all’art. 612 c.p., è determinata dalla configurazione della minaccia come reato di pericolo: per la sua integrazione non è richiesto che il bene tutelato sia realmente leso, bastando che il male prospettato possa incutere timore nel destinatario, menomandone potenzialmente, secondo un criterio di medianità riecheggiante le reazioni della donna e dell'uomo comune, la sfera di libertà morale.
E’ questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione, sezione V penale, con la sentenza 19 settembre-15 dicembre 2011, n. 46542.
Nel caso di specie il Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia, aveva confermato la sentenza del giudice di pace che aveva condannato il marito alla pena di euro 700 di multa, al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese in favore della parte civile, in quanto ritenuto responsabile dei reati, uniti dal vincolo della continuazione, di lesioni, ingiuria, minaccia in danno della moglie. Da qui il ricorso per cassazione dell’uomo che lamentava, tra l’altro, la violazione della legge in riferimento alla valutazione dell’attendibilità della persona offesa, in quanto il giudice aveva riconosciuto credibilità alla donna, senza tenere conto della sua posizione di parte civile, interessata a un determinato esito del processo. Il vaglio della sua credibilità, sostiene la difesa, avrebbe dovuto essere tanto più rigoroso, in ragione della pendenza tra le parti del procedimento di separazione.
Tuttavia, gli Ermellini ritengono la censura formulata dalla difesa in contrasto ingiustificato con il consolidato e condivisibile orientamento interpretativo in base al quale la testimonianza della persona offesa, al pari di tutte le testimonianze, deve essere sottoposta solo al generale controllo sulle capacità percettive e mnemoniche del dichiarante nonché sulla corrispondenza al vero della sua rievocazione dei fatti, desunta dalla linearità logica della sua esposizione e dall'assenza di risultanze processuali incompatibili, caratterizzate da pari o prevalente spessore di credibilità.
Questo controllo, si legge nella sentenza, è stato effettuato in maniera esaustiva dal giudice di appello, che, confermando le valutazioni del primo giudice, ha rilevato l'inconsistenza delle censure formulata nell'atto di gravame.
I giudici di Piazza Cavour ribadiscono quindi il principio in base al quale le dichiarazioni della persona offesa, costituita parte civile, sono ugualmente valutabili e utilizzabili ai fini della tesi di accusa,poiché, a differenza di quanto previsto nel processo civile, circa l'incapacità a deporre del teste che abbia la veste di parte, il processo penale risponde all'interesse pubblicistico di accertare la responsabilità dell'imputato, e non può essere condizionato dall'interesse individuale rispetto ai profili privatistici, connessi al risarcimento del danno provocato dal reato, nonché da inconcepibili limiti al libero convincimento del giudice.
A nulla vale, infine, il richiamo da parte del marito alla reciprocità delle offese e il nesso di dipendenza delle ingiurie fate dal marito da altre della moglie, in quanto alla loro affermazione non ha fatto seguito la prova delle stesse. Da qui l’inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle Ammende.
(Da Altalex del 30.12. 2011. Nota di Alessandro Ferretti)