Vorrei provare a spendere alcuni argomenti razionali, scevri da accenti polemici, e, soprattutto, da pregiudizi di parte, per richiamare l’attenzione delle istituzioni sulla triste situazione in cui oggi versano le professioni intellettuali. Parlo delle professioni “regolamentate”, libere, aventi ad oggetto prestazioni intellettuali, a cui si accede mediante esame di Stato o mediante concorso.
Le professioni che tutelano diritti fondamentali (come l’avvocatura e la medicina) e comunque interessi vitali per tutti i cittadini. Non a caso esse figurano sia nella Costituzione italiana sia nella Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione europea. Essendo vitali per la società - lo rilevava proprio alcuni mesi fa Francesco Galgano in un suo bel saggio pubblicato in Contratto e impresa (2011, p. 287 ss.) - esse dovrebbero ricevere una qualche attenzione da parte dei Parlamenti e dei Governi.
Le valutazioni politiche, economiche e giuridiche sul trattamento da riservare alle professioni sono valutate in un contesto più ampio di quanto non accedesse per il passato: passano (oltre che al Ministero della Giustizia) attraverso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Economia, il Ministero dello Sviluppo economico, e perfino l’ Autorità Antitrust. Nessuna di queste ultime istituzioni ha preso contatto con i rappresentanti delle professioni.
Le regole che oggi si discutono sulle manovre economiche, che coinvolgono anche le professioni, sono condizionate da una logica imprenditoriale e industriale. E’ evidente che la dimensione economica – oggi favorita dalla grande crisi – assume un ruolo centrale in ogni decisione, anziché essere uno dei criteri di valutazione da esaminare insieme ad altri, non meno rilevanti, come il parametro politico e il parametro giuridico. Cominciamo dunque dall’economia.
L’argomento che si sente spendere più frequentemente muove da un dato che si assume come incontestabile, cioè che la disciplina delle professioni deve essere “liberalizzata” perché l’attuale sistema abbasserebbe il PIL di un punto o di un punto e mezzo . Questo assunto, estrapolato da una Relazione dell’ allora Governatore della Banca d’Italia, risale al 2008. Non si è mai saputo con quali calcoli fosse stato determinato né in base a quali criteri venisse fuori questa cifra.
Se per avventura essa dovesse dipendere dai costi delle spese legali delle imprese (e cioè fosse tratta dalle statistiche del CEPEJ) risalirebbe al 2006, quindi ad una data anteriore al decreto che ha abolito l’ obbligatorietà delle tariffe minime. Se fosse vero che dalla soppressione della obbligatorietà sono conseguiti enormi benefici economici per le imprese, quel dato sarebbe del tutto inattendibile, perché temporalmente superato e tecnicamente incompleto. Se al contrario si trattasse di un dato recente, completo e attendibile, esso dimostrerebbe che la soppressione delle tariffe minime non ha prodotto - in sei anni - alcun risultato utile.
Per parte loro, le professioni producevano undici punti di PIL: non è dato sapere – in quanto i dati economici disponibili non ne trattano - se questo effetto positivo per l’economia italiana sia confermato, oppure se la crisi (come si potrebbe sospettare) abbia prodotto contrazioni nei benefici che le professioni apportano all’economia. Parlo di benefici, perché in questa demonizzazione delle professioni che è riflessa coralmente dai media, si tende a parlare solo di costi, di caste, di privilegi, di incrostazioni, come se le professioni fossero utili solo a se stesse e fossero un inutile fardello, una pesante catena di cui ci si deve liberare in ogni modo.
Se si guarda ai benefici assicurati dalle manovre introdotte a cominciare dall’ agosto scorso i, nel campo delle professioni non si è registrato alcun miglioramento. Tutte le agevolazioni e i sostegni si sono concentrati sulle imprese. Come interpretare questo indirizzo economico? è un invito ad abbandonare la distinzione dei due settori? è il segno della trasformazione strisciante che passa attraverso il mercato dei servizi professionali per arrivare al mercato tout court? Se fosse così avrebbero ragione coloro che mettono in guardia istituzioni e cittadini dalla inaugurazione di una nuova “costituzione materiale” realizzata mediante le tecniche della decretazione d’urgenza.
Lo spazio è tiranno, non si può insistere su questo argomento più di tanto. Passiamo all’argomento politico. Non alludo alle prossime elezioni amministrative, né alle alleanze partitiche in corso, né alla riforma elettorale, ma alle concezioni politiche in campo. Se “liberalizzare” significa rispettare le autonomie, non si comprende perché le manovre, a cominciare da quella di agosto, abbiano infierito sulle professioni con la imposizione di limiti di ogni tipo , inaugurando una stagione dirigistica che sembra esprimere una linea del tutto opposta a quella pubblicizzata. Anziché occuparsi del mercato finanziario, le cui lacune normative non hanno fatto da scudo alla crisi che proveniva dagli Stati Uniti, ci si è occupati di tariffe, anche quando esse tenevano conto delle esigenze sociali, di tirocinio professionale, addirittura di procedimenti disciplinari (!).
Se i valori hanno un peso nella configurazione dei programmi di governo, come si sono distribuiti i pesi e come si sono contemperati gli interessi? E’ difficile rispondere a questa domanda, perché gli interventi si sono succeduti a raffica, senza un programma coerente, sistematico, senza obiettivi mirati e calibrati.
Ecco, questo è l’ultimo argomento che vorrei spendere. Ragionevolezza e proporzionalità . Sono principi cardine del diritto comunitario: proprio quel diritto comunitario che invece viene utilizzato, in malam partem, per giustificare gli interventi restrittivi sulle professioni. Il quadro giuridico che si sta delineando nel nostro Paese in materia i professioni è singolare, perché unico in Europa, in contrasto con le direttive e con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Lo ha rilevato il CCBE, la rappresentanza europea degli avvocati, che esprime la voce di tutti i Paesi, compresi quelli di common law e quelli dell’Europa settentrionale, in una lettera inviata alle istituzioni qualche giorno fa, e passata sotto silenzio dai media.
Deprimere le professioni, con regole che unificano , anziché distinguere, le singole specificità grazie alle ripartizioni del sapere e della esperienza pratica, relegarle ad oggetto di semplificazione normativa da realizzare mediante un regolamento amministrativo, piegarle all’uso di tipologie societarie proprie dell’attività d’impresa, delegittimare gli organi rappresentativi che assicurano l’osservanza delle regole deontologiche e quindi sono un presidio per la tutela dei diritti e degli interessi fondamentali dei cittadini, significa mettere in atto un sistema di regole che non solo non è “richiesto dall’ Europa”, ma addirittura è in contrasto con i principi del diritto comunitario. Lo ha spiegato con ricchezza di argomenti , in uno scritto pubblicato sul sito del Consiglio nazionale forense, un valente studioso della materia, Roberto Mastroianni, docente dell’ Università di Napoli Federico II. Già, Federico II, il grande e colto imperatore, che aveva promosso e non certo depresso le professioni intellettuali. E dire che stiamo parlando nel tanto deprecato Medioevo, un’epoca che oggi ci sembra tanto lontana quanto luminosa.
Guido Alpa (da Altalex del 14.2.2012)