Nonostante anche il Ministero di Giustizia abbia, in prima battuta, fatto ricorso ad analoga argomentazione, pur senza procedere a un formale decreto interpretativo, tale riferimento non è condivisibile, e meriterebbe un ripensamento, perché pur fornendo una soluzione pratica ed immediata a un problema concreto, il ricorso a una simile argomentazione crea un vulnus nel sistema delle fonti e finanche della funzione ontologica del giudice. Nel nostro sistema, infatti, il giudice non può creare un uso, lo può applicare se lo rinviene nella società, mai generarlo. Ciò perché il giudice appartiene alla lex, all’ordine dato, mentre l’uso è ontologicamente jus, cioè ordine spontaneo o convenzionale della società. Di conseguenza allo stato non si possono definire usi in senso stretto le prassi degli Uffici giudiziari, anche se concordate tra Avvocati e Magistrati, giacchè essi non sono la generalità dei destinatari.
Affermare che usi convenuti tra i professionisti del processo (avvocati, magistrati, cancellieri) siano vincolanti per tutti i consociati significa applicare un principio proprio di un sistema corporativo, in cui i soggetti esponenziali delle singole categorie sono istituzionalmente titolati a redigere norme collettive o contratti normativi regolanti l’agire professionale. Ma tale non è ancora il nostro sistema.
Ancora una volta sembra preferibile la soluzione adottata dal tribunale di Varese, il quale ritiene necessario e sufficiente allo scopo il riferimento normativo all’art 2225 c.c. con il correlativo richiamo alle previgenti tariffe quali parametro di adeguatezza retributiva, rimandando con ciò, pur senza farne esplicita menzione, al principio di enunciato nell’art. 36 Cost. comma 1. Tale argomentazione logico-giuridica appare più convincente e robusta sul piano del riferimento normativo oltre scevra dalle ingombranti conseguenze sistematiche del ricorso agli usi. Infatti l'art. 2225 si colloca nel libro del lavoro, e quindi il richiamo ai criteri dell'art. 36 costituzione è quindi assai più pertinente di un riferimento a una fonte secondaria di dubbia giustificazione sistematica.
De jure condendo, osserviamo che se il presupposto concettuale dell'abolizione delle tariffe risiede nel fatto che, ai fini di una corretta concorrenza, nello spazio giuridico europeo non sono più ammissibili regimi di prezzi amministrati, conseguenza coerente con tale pensiero dovrebbe essere che la determinazione quantitativa delle spese debba intendersi sottratta al giudice, per il semplice fatto che non sarebbe più concepibile una determinazione di esse con parametri predeterminati per legge. In altre parole, come per ogni altra spesa, la parte vittoriosa dovrebbe semplicemente avere rimborsate le spese di difesa che attesti di aver sostenuto, alla stregua di ogni altra spesa di cui chieda il ristoro. In altri termini dovrebbe depositare la convenzione col compenso pattuito previamente, ovvero la fattura per esso in caso di compenso variabile. In quest'ultimo caso la fattura dovrebbe depositarsi con l'ultima difesa, cosa che incentiverebbe vieppiù la fedeltà fiscale. Meglio ancora se ne venisse aggiunta la detraibilità dall'imponibile, al pari delle spese mediche, che come la difesa afferiscono a un diritto di rango costituzionale.
(Da Altalex del 21.2.2012. Articolo di Barbara Lorenzi e Giuseppe M. Valenti)