Forse avrà anche contribuito ad abbassare lo spread, ma certamente - almeno nella fase d’avvio - il decreto “salvaitalia” non ha certo contribuito a rendere più certa, celere o agevole l’amministrazione della giustizia, soprattutto per le parti di buona fede.
Infatti l’abolizione delle tariffe professionali tout court per decreto e senza la previsione di una moratoria e/o un regime transitorio che fungesse da soluzione di continuità tra il vecchio sistema e il nuovo, ha lasciato un vuoto legislativo che la fantasia degli interpreti ha dovuto riempire nei modi più disparati. E se si può anche condividere l’enunciazione di principio secondo cui in un mercato transnazionale aperto non sia concepibile la sopravvivenza di sistemi di prezzi vincolati e amministrati politicamente dall’autorità statale, dobbiamo constatare che il modo e lo strumento con il Legislatore governativo ha scelto di riformare non è stato certo il più accorto e prudente, come del resto ha già osservato la commissione giustizia del Senato nel rendere il suo parere – ampiamente negativo – sul provvedimento.
Intanto però il decreto è vigente, e giudici e avvocati devono farci i conti. Letteralmente. Perché qui il problema è esattamente come fare i conti, cioè come liquidare la condanna nelle spese una volta che per legge le tariffe che costituivano i vecchi parametri sono inutilizzabili perché soppresse, mentre, d’altro canto, il ministro vigilante (che pur ha controfirmato il decreto legge 1/12) non ha ancora approntato i parametri previsti dal comma 2 dell’art. 9 per l’ipotesi specifica della liquidazione giudiziale dei compensi professionali.
Ecco quindi un giudice di Cosenza (ordinanza 1 febbraio 2012) che dichiara che in mancanza di un qualunque parametro di riferimento non può procedere ad alcuna liquidazione delle spese di procedura, nemmeno in via equitativa. Al contrario, il Giudice di Pace di Milano (sentenza 30 gennaio 2012) tenta un’operazione di interpretazione integrativa, col richiamo di una norma sostanziale, segnatamente l’art. 6, D.Lgs. 231/02, per procedere alla liquidazione delle spese di un’ingiunzione di pagamento. Tale norma, invero (analogamente all’art. 1224 c.c.), sancisce il diritto del creditore a ripetere dal debitore tutti i costi di recupero del credito, determinati anche presuntivamente. Tuttavia proprio il comma 2 del richiamato art. 6 contiene, a ben guardare, un elemento che ne vanifica il richiamo per lo scopo che ci occupa. A mente di tale norma i costi di recupero possono essere determinati anche in base ad elementi presuntivi e tenuto conto delle tariffe forensi in materia stragiudiziale, ma devono pur sempre rispondere a principi di trasparenza e di proporzionalità.
L’analisi sistematica e letterale della norma non lascia dubbi sul fatto che due siano i riferimenti per la liquidazione: 1) gli elementi presuntivi; 2) le tariffe forensi. Abolite queste ultime dal D.L. 1/12, non resterebbero che i primi, i quali però, per rispondere ai criteri di trasparenza e proporzionalità comunque richiesti dall’art. 6, D.Lgs. 231/02, dovrebbero essere indicati, quanto meno in modo sintetico e sommario, dal giudice liquidante, cosa che nel decreto in esame non è stata fatta. Ciò, a parere di chi scrive, legittimerebbe un’opposizione sul punto delle spese. In altre parole il giudice avrebbe dovuto palesare – anche solo con un breve inciso – i criteri con cui aveva ritenuto di determinare in 400,00 € piuttosto che in 350,00 o in 450,00 o in altra misura le spese del monitorio. In mancanza di tale indicazione, la liquidazione resta arbitraria, anche (o proprio) col riferimento analogico all’art. 6, D.Lgs. 231/02, in quanto non sono intellegibili né tampoco verificabili i criteri di trasparenza e proporzionalità richiesti dalla norma invocata a sostegno. Senza poi contare che il D.Lgs. 231/02 si applica solo ai rapporti tra imprenditori, mentre il correlativo art. 1224 c.c. non dispone di una previsione analoga al comma 2 del citato D.Lgs. 231/02 quanto alla determinazione in via presuntiva.
Resta quindi aperta la domanda: ma allora quali potrebbero essere, allo stato, i criteri per una legittima liquidazione delle spese di giudizio?
Certo ripugna al senso comune (ma anche alla logica sistematica) che una norma emanata dichiaratamente per favorire i cittadini-utenti si concretizzi nell’impossibilità di ripetere dalla parte soccombente gli oneri del servizio professionale sopportati per realizzare le proprie legittime ragioni, anche perché taluno potrebbe dolersi di denegata giustizia rispetto al giudice che rifiutasse di pronunciare sul capo relativo alle spese in ragione dell’abolizione delle tariffe professionali, ovvero dolersi della violazione del principio di soccombenza sancito dall’art. 91 c.p.c.
Ma d’altronde come non comprendere l’imbarazzo di chi, dovendo esprimere e giustificare un numero, un valore economico, si vede da un giorno all’altro deprivato degli strumenti indicatori che hanno sino a quel momento guidato la liquidazione delle spese? Tuttavia anche di fronte alla distonia legislativa il giurista interprete deve provare a raggiungere un risultato utile e coerente, per quanto ancora possibile.
E allora, pur in mancanza di un auspicabile regime transitorio, si può forse supplire al deficit attraverso un’operazione logica che, passando per l’art. 36 Cost., definisca e legittimi dei criteri di liquidazione giudiziale delle spese sin quando il ministro di giustizia non avrà avuto l’accortezza di provvedere a dar luogo all’art. 9 comma 2 del decreto “salvaitalia”.
Il ragionamento potrebbe essere il seguente: posto che, ai sensi dell’art. 91 c.p.c. il giudice, salvo ricorrano motivi di compensazione, è tenuto a liquidare e porre a carico della parte soccombente le spese della lite sostenute dalla parte vittoriosa; che una quota non trascurabile di esse è costituito dal compenso dell’opera del difensore, il quale è prestatore d’opera intellettuale e come tale rientrante nella previsione dell’art. 36 Cost.; che infatti, sin quando sono state vigenti, le tariffe professionali forensi erano redatte avuto riguardo a tale norma costituzionale; che la loro soppressione come cogenti non ne elimina né ne inficia, in mancanza di altri parametri, l’utilizzabilità ai fini di una liquidazione equitativa delle spese di lite; che sarebbe contrario al principio di ragionevolezza affermare oggi un compenso inferiore a quello ritenuto sino a ieri conforme all’art. 36 Cost.; liquida equitativamente in € (…) le spese di lite.
Poi quando il ministro provvederà ad integrare la previsione normativa dell’art. 9 comma 2, si potrà essere esenti dallo sgranare il rosario che precede.
(Da Altalex del 9.2.2012. Articolo di Barbara Lorenzi e Giuseppe M. Valenti)