Il bambino era ancora vivo, nel grembo della madre, all'arrivo nella clinica per un ricovero urgente. Tre giorni dopo, il taglio cesareo, e, purtroppo, la drammatica scoperta: il piccolo è già morto, al momento della venuta alla luce. La Corte di Cassazione affronta la questione della responsabilità professionale con la sentenza n. 14405 del 30 giugno.
La tragedia
Nel settembre del 1986 i fatti che approdano prestano nelle aule dei tribunali. Prima il tribunale di Roma accerta la responsabilità dei medici e della struttura sanitaria, con conseguente condanna al risarcimento dei danni (400milioni di lire alla madre, 300milioni di lire al padre). Poi dalla Corte d'Appello di Roma arriva una riforma della sentenza, negando, tra l'altro, la rivalutazione delle somme liquidate dal tribunale, e stabilendo che la somma dovuta dai medici e dalla Regione verso i due genitori ammontava a oltre 437mila euro per la madre e a oltre 327mila euro per il padre.
I ricorsi in cassazione
La vicenda approda in Cassazione. I ricorsi dei medici coinvolti vengono portati all'attenzione dei giudici di piazza Cavour. Ma il responso è negativo.
In premessa, viene chiarito che i medici «ritenuti responsabili» hanno presentato ricorsi che «non contengono una espressa richiesta di estensione dell'accertamento della responsabilità». Punto significativo, poi, è quello della «qualificazione del rapporto giuridico tra il medico ed i genitori del nascituro, che è di protezione verso la madre, ma anche verso il padre in relazione all'interesse costituzionalmente protetto della integrità del nuovo nucleo familiare in relazione alla nascita programmata e sperata».
Anche alla luce di questo elemento è stata attestata «la responsabilità civile dei medici» ed è stato riconosciuto «il danno parentale non patrimoniale», nonostante il richiamo dei medici a un giudicato penale che li assolve con la formula «il fatto non costituisce reato». E su quest'ultimo punto i giudici del Palazzaccio sottolineano «il principio della parità ed originarietà dei diversi ordini giurisdizionali e della sostanziale autonomia e separazione dei giudizi».
Dal ricovero al parto
Tante le azioni e omissioni suscettibili di responsabilità. L'elenco è lungo. In primo luogo, la morte per ipossia del bambino, «sopravvenuta, dopo la rottura delle acque, per il protrarsi della situazione di gravissimo pericolo in assenza di travaglio e di provvedimenti medici salvifici». In secondo luogo, non regge l'ipotesi che la tragedia sia legata a fattori esterni all'operato dei medici, ovvero «struttura non organizzata; tardività delle trasmissioni dei dati di analisi; mancato monitoraggio delle condizioni del nascituro; non disponibilità della sala di chirurgia»: toccava ai medici l'onere della prova rispetto a queste variabili indipendenti.
Anche - e non solo - per questo, in piazza Cavour danno ragione alla Corte d'Appello quando accerta che «sussiste il nesso di causalità tra la condotta inadempiente del medico, l'evento morte del nascituro e la consequenzialità dei pregiudizi non patrimoniali per danno parentale», anche alla luce delle consulenze medico-legali.
Il danno allo sviluppo della famiglia
Sono, infine, confermate anche le valutazioni rispetto alla liquidazione dei danni ai genitori, considerando «la sofferenza patita dagli stessi sia nel momento della perdita, sia, successivamente, per la perdita della integrità della comunione familiare» e «i diritti della famiglia come società naturale che si espande con la nascita dei figli», diritti costituzionalmente garantiti.
In questa ottica, il peso è non solo legato alla tragica morte del bambino, come evento drammatico per i genitori, ma anche alla idea di crescita della famiglia, crescita immaginata, sognata e programmata, e invece venuta meno anche a causa del comportamento dei medici.
(Da avvocati.it del 13.7.2011)