Cass. Pen., sez. V, sent. 21.8.2013 n° 35269
La Suprema Corte, nel caso in esame, ribadisce l’indubbia rilevanza dell’istituto del sequestro di materiale informatico ai fini di indagini relative anche a reati comuni.
In particolare, la Corte di Cassazione conferma l’ordinanza del tribunale di Siena che a sua volta aveva riconosciuto la legittimità del decreto di sequestro, emesso dal P.M., a norma dell'art. 252 c.p.p., di due computer, posti nello studio di due legali.
Secondo la S.C. l’ordinanza ricostruisce e valuta le emergenze delle indagini in corso, nei confronti di due avvocati che hanno ottenuto il rinvio di udienze penali, producendo un certificato del medesimo medico curante, attestante impedimento dovuto a ragioni salute, impedimento che è invece risultato inesistente.
Di conseguenza va ritenuto senz’altro valido e fondato il sequestro dei due computer contenenti documenti afferenti alla loro attività, perché effettuato con il preciso scopo di individuare i files rilevanti per accertare se i due legali, nei giorni in cui hanno prodotto i certificati attestanti l'impossibilità di svolgere attività lavorativa nelle udienze di cui hanno ottenuto il differimento per assoluto impedimento di presenziare, abbiano altrove svolto regolarmente attività lavorativa. Di qui l'evidente pertinenzialità tra beni in sequestro e i reati che sono oggetto delle indagini in corso.
La Suprema Corte conclude anche per l’evidente impossibilità di riconoscere agli avvocati le invocate garanzie di cui ai commi 3 e 4 dell'art. 103 c.p.p., essendo essi interessati nelle indagini non nella qualità di difensori di altri cittadini indagati, ma nella qualità di cittadini essi stessi indagati e, come tali, non meritevoli della privilegiata posizione garantita dalla legge.
Inoltre, sempre secondo l’organo giudicante, non è opponibile il segreto professionale poiché l’oggetto e le finalità del sequestro sono limitati ai files concernenti non il merito dell'attività professionale svolta dagli indagati, ma il se e il dove tale attività sia stata svolta; d’altro canto il provvedimento di sequestro, a prescindere da qualsiasi ulteriore considerazione, non riguarda comunicazioni o messaggi di posta elettronica tra i legali e i loro assistiti, che potrebbero trovarsi nei computer.
Negli ultimi tempi sta assumendo notevole diffusione il ricorso al sequestro nel settore dei reati informatici o dei reati comuni dove però il dato digitale è particolarmente rilevante. Il sequestro insieme alla copia e all’intercettazione rappresenta una modalità tecnica di acquisizione del dato digitale, ed in effetti in pratica consiste nel prendere fisicamente il supporto su cui il dato stesso risiede. Nella copia, invece, il supporto originale viene acquisito sotto forma di copia delle informazioni contenute nello stesso e riversato su un altro supporto, mentre l’intercettazione prevede che il dato venga acquisito nel suo passaggio da un sistema a un altro.
Il sequestro rappresenta il mezzo di ricerca della prova più controverso. La domanda che ha assillato la dottrina e la giurisprudenza è la seguente: il computer va qualificato come corpo del reato o cosa pertinente al reato? È chiaro che il vincolo pertinenziale fra reato e supporto informatico sussisterà ogni qualvolta esso potrà qualificarsi come arma del delitto (si pensi ai cd. reati informatici propri, in cui la condotta avviene ed è diretta a dispositivi informatici). Di contro, nei casi in cui il calcolatore rappresenti cosa pertinente al reato, ossia strumento per risalire attraverso le tracce ivi presenti alle fasi preparatorie e alla condotta assunta in concreto dal soggetto indagato tale automatismo non può operare, dovendosi caso per caso analizzare il ruolo giocato all’interno della vicenda.
(Da Altalex dell’11.9.2013. Nota di Michele Iaselli)