Cass. Sez. Lavoro, Sent. 11.8.2015, n.
16690
La Corte di Cassazione, in una recente sentenza, ha stabilito
che il datore di lavoro che sia stato condannato per mobbing ai danni di un suo
dipendente non è tenuto a risarcire il danno alla professionalità se questo ha
trovato un nuovo impiego ugualmente qualificante rispetto al precedente.
Nel
caso esaminato dalla Corte di legittimità, una lavoratrice, con incarico
manageriale, rassegnava le proprie dimissioni per giusta causa, in conseguenza
di trattamenti vessatori posti in essere dal proprio datore di lavoro, e,
ricorrendo in giudizio, otteneva dal giudice la condanna dello stesso al
risarcimento del danno subito (in particolare, danno alla salute, accertato da
un consulente tecnico d’ufficio, e indennità di preavviso).
Ottenuto
nelle more del giudizio un nuovo impiego con trattamento economico e
inquadramento contrattuale non deteriori rispetto a quelli goduti presso
l’azienda della parte soccombente, non le era riconosciuto alcun danno alla
professionalità.
La
lavoratrice proponeva ricorso avverso la pronuncia del giudice di merito
innanzi alla Corte di Cassazione, deducendo vizio di motivazione, per non aver
il giudice riconosciuto un danno alla professionalità medio tempore tra il
momento delle dimissioni e il nuovo impiego e di non aver tenuto conto
dell’impiego immediatamente successivo a quello dal quale si era dimesso, nel
quale era stata costretta a svolgere mansioni di livello inferiore al
precedente inquadramento professionale.
La
Cassazione ha ritenuto
tale motivo infondato. I giudici di legittimità hanno affermato che il
comportamento vessatorio del datore di lavoro ai danni del dipendente non
determina necessariamente una lesione dei diritti della personalità, lesione
che deve essere allegata e provata da chi denuncia di averla subita. Questo in
quanto il danno non è in re ipsa alla condotta vessatoria, ma deve essere
denunciato e provato in giudizio.
Constatando
che il danno alla professionalità sussiste nel caso in cui il superiore
gerarchico, con proprie condotte, lede il novero delle competenze, capacità e
abilità possedute dal proprio dipendente (tipico esempio è il demansionamento),
questo non si determina se il lavoratore, a conclusione del precedente rapporto
di lavoro, ottiene un nuovo impiego non meno qualificante del precedente.
In
questo caso, il novero delle competenze e delle capacità, dunque la
professionalità, non sono state in alcun modo intaccate dalla condotta
vessatoria della controparte, dato che il nuovo datore di lavoro,
nell’attribuire l’incarico, ha ritenuto le stesse sussistenti.
In
sostanza, secondo la
Cassazione, l’aver ottenuto, in un arco temporale di breve
durata, un nuovo impiego con trattamento economico e inquadramento contrattuale
non inferiore al precedente ha permesso alla lavoratrice di “evitare” un danno
alla propria professionalità, ragion per cui non esistendo alcun danno non può
essere richiesto alcun risarcimento.
Lorenzo Pispero (da
filodiritto.com del 17.9.2015)