Misure cautelari. Vale il «pronostico»
del giudice
Il
giudice nel valutare l’esigenza delle misure cautelari deve considerare la
possibilità per l’imputato di ottenere la condizionale o una condanna inferiore
ai tre anni.
Se
in base al suo pronostico la toga ritiene possibile la concessione della
condizionale (articolo 163 del Codice penale) dovrà escludere il ricorso alle
misure cautelari, quando invece, a suo avviso, l’”asticella” della giustizia é
orientata verso una condanna non superiore ai tre anni il giudice potrà
limitarsi a dire no alla sola custodia in carcere. La Cassazione, con la
sentenza 36918 depositata ieri, fornisce i chiarimenti per una corretta lettura
dell’articolo 275, comma 2-bis del Codice di procedura penale, sul quale è
intervenuto il Dl 92/2014, convertito nella legge 117/2014. La nuova norma
sbarra la strada della custodia in carcere in tutti i casi in cui il giudice
prevede che alla fine del giudizio la pena resterà sotto la soglia dei 3 anni.
Un’indicazione
seguita dai giudici di merito che avevano sostituito la misura della custodia
cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, nei confronti di un imputato
accusato di aver prodotto fatture false finalizzate all’evasione fiscale
(articolo 8, Dlgs 74/2000).
Contro
la decisione dei giudici di merito aveva fatto ricorso l’imputato ritenendo
immotivata l’esigenza delle misure cautelari sebbene nella forma meno
restrittiva. Una conclusione raggiunta guardando al destino di un coimputato
per lo stesso reato al quale era stata concessa la condizionale dopo il
patteggiamento. A suo avviso il Tribunale della libertà avrebbe dovuto
prevedere gli effetti di una possibile pena concordata e del beneficio della
condizionale.
Per
la Suprema
corte però il giudice cautelare si è comportato in modo esemplare. La prognosi,
infatti, non deve basarsi su dati astratti ma sul caso concreto. L’impatto che
sull’esito finale del giudizio possono avere i riti alternativi non va
parametrato alla loro ipotetica praticabilità «ma ad elementi che ne facciano
ritenere la più che probabile fattibilità». Fermo restando - ricorda la Suprema corte - che il
pericolo di recidiva rende «infausta la prognosi della concedibilità della
sospensione condizionale». Nel caso esaminato il reato era stato contestato in
relazione a diverse annualità: una continuazione, che avrebbe con ogni
probabilità fatto lievitare la pena minima di un anno e sei mesi, allontanando
la possibilità del beneficio invocato.
Obiettivo
del legislatore non è lasciare impuniti i reati ma fare in modo che, a
procedimenti conclusi, l’imputato non sia in credito con la giustizia per
essere stato sottoposto durante il percorso processuale a restrizioni che non
era destinato a subire alla fine. Il tutto per un’errata valutazione del
giudice.
Patrizia Maciocchi (da
Il Sole 24 ore del 15.9.2015)