È sempre più radicata l’opinione che la società moderna necessiti di strade diverse - più veloci, economiche e semplici - rispetto al tradizionale ius dicere statuale. Il monopolio del diritto non è d’altronde certamente essenziale per lo Stato al di fuori delle ipotesi e nella misura in cui non sia coinvolto un interesse superindividuale o di ordine pubblico. La finalità del nuovo istituto della mediazione civile e commerciale, approvato con il decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, appare chiaramente essere inerente al deflazionamento del sistema giudiziario. È ormai un dato acquisito che gli ordinamenti occidentali (sia negli Stati Uniti sia in Europa) si indirizzino verso la c.d. alternative dispute resolution rispetto al processo di cognizione davanti al giudice statale, sì che appare ormai lontanissimo (e superato) l’insegnamento kelseniano secondo cui gli interessi dei soggetti assurgono a livello di diritto soggettivo quando interviene il riconoscimento e la tutela dell’ordinamento.
Sommario: 1. Ius dicere e equivalenti del processo civile - 2. Il problema della “giurisdizione condizionata” - 3. Luci e ombre del decreto d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 - 4. La mediazione obbligatoria - 5. Alcune conclusioni.
1. Ius dicere e equivalenti del processo civile
Già da lungo tempo la nostra più autorevole letteratura ha studiato i c.d. strumenti di composizione delle controversie, gli “equivalenti del processo civile”, tramite i quali i privati rivendicano nei confronti dello Stato la loro sfera di libertà e di autonomia. L’elemento tipico che li accomuna è nell’essere la fonte della risoluzione della controversia insita nella volontà delle parti. È oggi definita mediazione (d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28) l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti, sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia (c.d. mediazione compositiva), sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della controversia (c.d. mediazione propositiva). Non sono previste formalità particolari ed è possibile utilizzare anche modalità telematiche. La mediazione è com’è noto obbligatoria, nell’accezione di imposta dalla legge, allorché il procedimento di mediazione deve essere esperito, a pena di improcedibilità (da eccepire nel primo atto difensivo dal convenuto, oppure dal giudice non oltre la prima udienza), nei casi di controversie relative a condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di azienda, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica, risarcimento del danno derivante da diffamazione con il mezzo della stampa o altro mezzo di pubblicità; infine, contratti assicurativi, bancari e finanziari. L’istituto della mediazione non può invece riguardare i procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione; i procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento di rito di cui all’art. 667 c.p.c.; i procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all’art. 703 c.p.c., comma 3, c.p.c.; i procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione, relativi all’esecuzione forzata; i procedimenti in camera di consiglio; l’azione civile esercitata nel processo penale. Va evidenziato che vi è un nuovo obbligo per l’avvocato, che deve informare l’assistito in modo chiaro e per iscritto, nel primo colloquio, della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione; il documento così formato e sottoscritto dal cliente dovrà essere allegato all’atto introduttivo nell’eventuale giudizio; diversamente, sarà il giudice ad informare la parte della facoltà di intraprendere un procedimento di mediazione. In caso di violazione dell’obbligo informativo è prevista l’annullabilità del contratto concluso con l’assistito.
2. Il problema della “giurisdizione condizionata”
L’art. 111 Cost. ha introdotto sia il principio del giusto processo sia il principio della sua ragionevole durata. Analogamente, l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo riconosce il diritto di ogni persona a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale. A tale riguardo, va segnalata la recente “Mozione sulla mediazione” espressa nel XXX Congresso Nazionale Forense. Il Congresso dell’Avvocatura, con specifico riferimento all’ipotesi di mediazione obbligatoria quale condizione di procedibilità, ha valutato la normativa contenuta nel d.lgs. n. 28/2010 in violazione dei princìpi del giusto processo e del diritto di accesso del cittadino alla giustizia e all’assistenza tecnica qualificata. Se è avallabile, è l’argomentazione, la finalità di decongestionare gli uffici rispetto al carico dei processi, tuttavia questo non deve andare a compromettere il diritto del cittadino al giusto processo. La crisi della giustizia non si risolve con provvedimenti “tampone” o con l’introduzione “a forza” di sistemi obbligatori di a.d.r., ma necessita di interventi strutturali a livello legislativo e organizzativo, e l’istituto della mediazione così come concepito, appare non corrispondente alle direttive europee in merito, nonché in palese contrasto con i principi costituzionali del nostro ordinamento. L’Avvocatura ha di conseguenza chiesto formalmente alcune modifiche al d.lgs. n. 28/2010, con riferimento all’abrogazione della previsione di annullabilità del mandato per omessa comunicazione preventiva al cliente della possibilità della conciliazione; all’obbligatorietà della difesa tecnica; alla previsione di un periodo di sperimentazione per valutarne i vantaggi e problematiche; all’abrogazione della previsione di una proposta del mediatore in assenza di una congiunta richiesta dalle parti; all’abrogazione di tutte le disposizioni che stabiliscono un collegamento tra la condotta delle parti nel procedimento di mediazione e il processo; alla revisione della competenza territoriale per gli organismi di conciliazione in correlazione a quella del giudice competente per legge.
Va considerato che in dottrina non poche voci hanno ritenuto che la tendenza legislativa a fare leva sulla conciliazione obbligatoria in funzione deflattiva del contenzioso civile possa in astratto violare l’art. 24, 1° co., Cost., che tutela il diritto di accesso alla tutela giurisdizionale dei propri diritti (e interessi legittimi). Qualsiasi limitazione incongrua al pieno esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale non soltanto determina la violazione dell'art. 24 Cost., ma è, altresì, idonea a causare anche una lesione delle attribuzioni dell'Autorità giudiziaria, essendo peraltro assai difficile sollevare in via incidentale questione di legittimità costituzionale delle norme che non eliminano la tutela giurisdizionale, ma soltanto ne rendono possibile l'esercizio dopo il decorso del termine legale che determina l'espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione.
Il tema centrale appare dunque essere inerente alla presunta limitazione del diritto di azione da parte della conciliazione obbligatoria. La possibilità di subordinare l’esercizio dell’azione giudiziaria al preventivo esperimento di rimedi amministrativi è tendenzialmente ammessa nei sistemi giuridici moderni. La Corte costituzionale, in argomento, ha affermato che la “giurisdizione condizionata” giustificata dall’interesse della salvaguardia della funzione giurisdizionale, va osservata e valutata con riferimento alle finalità di tale filtro rispetto alla tutela giurisdizionale. La giurisprudenza della Corte costituzionale - che già aveva sancito l’illegittimità dell’arbitrato c.d. obbligatorio - è costante nell'affermare che il rigore con cui è tutelato il diritto di azione, secondo la previsione dell'art. 24, non comporta l'assoluta immediatezza del suo esperimento. Se alcune limitazioni tendono, infatti, ad evitare l'abuso del diritto alla tutela giurisdizionale, nondimeno l'adempimento di un onere, lungi dal costituire uno svantaggio per il titolare della pretesa sostanziale, rappresenta il modo di soddisfazione della posizione sostanziale più pronto e meno dispendioso. Evitare l'abuso, o ancor meglio l'eccesso della giurisdizione, in vista di un interesse della stessa funzione giurisdizionale, è stato sovente la ratio espressa della giurisdizione condizionata. Il principio di economia processuale, inteso come più efficace e pronta soluzione dei conflitti, ha solitamente fondato la rispondenza dei condizionamenti censurati alla previsione costituzionale del diritto di azione. L’art. 24 Cost. non impone che il cittadino possa conseguire la tutela giurisdizionale sempre allo stesso modo e con i medesimi effetti, e non vieta quindi che la legge possa subordinare l’esercizio dei diritti a controlli o condizioni, purché non vengano imposti oneri o non vengano prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale. In questo senso, la giurisprudenza costituzionale giudica certamente legittima l’imposizione di condizioni all’esercizio dell’azione se le suddette condizioni, oltre a salvaguardare interessi generali, costituiscono, anche dal punto di vista temporale, una limitata remora all'esercizio del diritto stesso.
In altri termini, non vi è pregiudizio laddove il differimento dell’esercizio dell’azione giudiziale sia utile al conseguimento del risultato di soddisfacimento rapido dell’interesse da tutelare. E in tal senso, va indagata l’opportunità che la conciliazione condizioni la procedibilità e ammissibilità della domanda.
3. Luci e ombre del decreto d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28
Il d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, ha introdotto un articolato procedimento di “mediazione”, con il principale obiettivo di ridurre il peso del contenzioso civile. Il provvedimento tende infatti ad introdurre nel nostro paese un istituto particolarmente utilizzato nel diritto anglosassone: la mediation. Il termine “mediazione” è utilizzato per indicare “l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione della controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa” (art. 1). L’espressione sta ad indicare il procedimento per giungere, se possibile, alla conciliazione, cioè alla composizione della controversia.
Pare opportuno ricordare che una simile tipologia di procedimento era già stata prevista a livello europeo dalla direttiva 2008 n. 52, CE, la quale aveva dettato nuove disposizioni in relazione a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale e aveva stabilito che “nulla dovrebbe vietare agli Stati membri di applicare tali disposizioni anche ai procedimenti di mediazione interni”.
Il procedimento di mediazione di cui al d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 viene svolto da un mediatore, il quale fa capo ad un organismo di mediazione. Quest’ultimo consiste in un “ente pubblico o privato, presso il quale può svolgersi il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto” (art. 1 co lett. d). In particolare l’art. 18 del decreto consente agli ordini degli avvocati di istituire organismi di mediazione presso ciascun tribunale. In merito la dottrina non ha mancato di osservare che la disposizione mal si concilia con il principio di separazione dei ruoli, poiché uno è il compito dell’avvocato, altro quello del giudice o di chi svolge funzioni conferenti con la giurisdizione.
Ai sensi dell’art. 2, co. 1, “chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili”.
Tale accesso agli organismi di mediazione è libero, anche senza l’assistenza di un avvocato, e non richiede formalità (art. 8). L’affermazione non è priva di implicazioni pratiche nonché di contraddizioni. Mentre infatti nell’art. 8 l’accesso all’organismo di conciliazione non prevede la necessità dell’assistenza del difensore, nell’art. 4 viene sanzionata la condotta dell’avvocato che omette di informare l’assistito per iscritto della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione. Una simile previsione, nella misura in cui impone al difensore di tenere una certa condotta difensiva, rischia di porsi in contrasto con il principio di libertà e indipendenza nell’esercizio della funzione forense, consacrato dal codice deontologico di categoria.
Proseguendo con l’analisi del decreto può facilmente notarsi che il legislatore non ha previsto alcun criterio per determinare la competenza del mediatore da scegliersi. Ciò significa che l’attore è libero di scegliere l’organismo territorialmente più comodo, ma anche quello più gradito. Potrà allora rilevarsi che, qualora l’attore scelga un determinato organismo di mediazione con l’evidente scopo di rendere difficoltoso il raggiungimento della mediazione, sarà chiaro che in capo al soggetto non esiste alcuna volontà conciliativa.
La durata del procedimento (art. 6) non deve superare i quattro mesi; tale termine decorre dalla data di deposito della domanda di mediazione, o dalla scadenza di quello fissato dal giudice per il deposito della stessa nel caso in cui il tentativo di mediazione non sia stato esperito prima dell’inizio della controversia. In ogni caso, il termine dei quattro mesi non è soggetto alla sospensione feriale dei termini (art. 2).
Il legislatore ha quindi apposto un termine alla durata del procedimento, ma non ha previsto quali conseguenze derivino dall’inosservanza del termine stesso. Pare allora che la conclusione più logica sia quella per la quale, trascorsi i quattro mesi senza si sia pervenuti alla conclusione del procedimento, le parti possano proporre la domanda giudiziale. Domanda giudiziale che, nelle ipotesi di mediazione facoltativa, potrebbe essere in teoria proposta in ogni momento dalle parti. Qualche perplessità suscita invece l’opinione , che se accolta tende a svuotare di significato la norma, la quale permette alle parti (nella mediazione obbligatoria) di proseguire il procedimento di mediazione anche oltre i quattro mesi, anche parallelamente al processo ordinario.
Un altro tentativo del legislatore di snellire il procedimento lo si rinviene nell’art. 8, che assegna (presumibilmente) alla parte attrice un termine di quindici giorni per informare la controparte dell’inizio del procedimento (sebbene potrebbe provvedervi anche l’organismo di mediazione) con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione. In tal senso si è forse voluto risparmiare alle parti l’onere di comunicare con la controparte attraverso il meccanismo delle notificazioni. In realtà, la notificazione - che nella logica del codice di rito non ha certamente la funzione di aggravare gli oneri formali delle parti - permette di ottenere una prova attendibile della consegna dell’atto al destinatario, e non si capisce allora perché la scelta del legislatore non si sia ispirata a tale meccanismo sicuro, almeno per quanto riguarda i casi di mediazione obbligatoria.
Nel resto, il procedimento si svolge davanti all’organismo di mediazione senza particolari formalità. Il mediatore dovrà a questo punto tentare di portare le parti ad un accordo amichevole di definizione della controversia.
Deve notarsi che, ai sensi dell’art. 11, sembrerebbe che il mediatore, al termine della mediazione, debba sempre fare una proposta di conciliazione. L’articolo non è “chiaro”, poiché mentre il comma 1 stabilisce che il mediatore può formulare l’accordo qualora quest’ultimo non sia stato raggiunto, il comma 4 prevede che se la conciliazione non ha buon esito il mediatore forma processo verbale con l’indicazione della proposta. Il testo sembra contrapporre il termine accordo al termine conciliazione, considerando l’accordo alla stregua di una conciliazione fatta dalle parti senza l’aiuto del mediatore, e la conciliazione come l’accordo delle parti raggiunto grazie all’aiuto del mediatore.
A questo punto l’esito che può avere il procedimento è tripartito:
a) le parti raggiungono un accordo senza l’intervento del mediatore; il mediatore redigerà allora processo verbale sottoscritto dalle parti.
b) le parti raggiungono la conciliazione facendo istanza di proposta della stessa al mediatore, e dovranno comunicarne entro sette giorni per iscritto l’accettazione. Il mediatore redigerà anche in questo caso processo verbale sottoscritto dalle parti.
c) la conciliazione non ha esito positivo, in tal caso si avrà comunque la redazione del processo verbale che dovrà contenere, ove formulata, l’indicazione della proposta di conciliazione.
Per certi versi paradossale, comprensibile soltanto nella logica dell’universo rovesciato della mediazione rispetto al processo ordinario, appare, infine, la posizione della parte vincitrice in sede giudiziale, che si era però rifiutata di concludere la conciliazione davanti all’organismo di mediazione. L’art. 13 stabilisce infatti che la parte vincitrice non solo non otterrà la condanna alle spese a suo favore, ma dovrà anche pagare alla controparte le spese giudiziali “successive alla formulazione della proposta”, nonché una somma pari al contributo unificato dovuto. Vero è che, nella fattispecie la vittoria, quanto meno con riferimento ala condanna alle spese, ha un trattamento deteriore rispetto alla soccombenza.
4. La mediazione obbligatoria
Ciò premesso è opportuno rilevare che il provvedimento in esame introduce non un tipo di mediazione, ma tre diversi tipi, soggetti alle stesse regola procedurali, eppure distinti:
a) il procedimento di mediazione obbligatoria;
b) il procedimento di mediazione facoltativa;
c) il procedimento di mediazione concordata.
La mediazione obbligatoria consiste nell’esperimento di un procedimento costituente “condizione di procedibilità della domanda giudiziale”.
Le materie sottoposte a questa sorta di condizione di accesso alla giustizia sono indicate dall’art. 5 del decreto, il quale dispone che chiunque intenda esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in taluna delle materie indicate “è tenuto preliminarmente ad esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto” (art. 5 co. 1).
La mediazione obbligatoria intesa in tale senso potrebbe, allora, pregiudicare chi ha subito un torto e vuole giustizia dallo Stato, poiché lo Stato stesso, imponendo la mediazione, chiede all’attore di rinunciare a un normale procedimento davanti all’autorità giudiziaria. Inoltre il procedimento di mediazione viene ad essere imposto in una serie di controversie estremamente eterogenee e suscettibili di una incontrollabile espansione.
Le maggiori difficoltà attengono dunque alla delimitazione delle materie indicate nell’articolo in esame. Ad esempio viene genericamente indicata la materia del risarcimento del danno da responsabilità medica, senza specificare se esista o meno una delimitazione relativa al valore della controversia (che in questo campo potrà sicuramente raggiungere cifre importanti, vertendo sul diritto alla salute, costituzionalmente garantito).
Allo stesso modo si potrà osservare che per cause aventi ad oggetto diritti reali, possono intendersi anche tutte le cause aventi ad oggetto contratti traslativi di tali diritti, nonché aventi ad oggetto la loro nullità, l’annullamento, o la risoluzione.
La stessa delimitazione manca relativamente a quella che nel decreto è genericamente indicata come “domanda giudiziale” (art. 4 co. 3): la dottrina ha infatti già iniziato a chiedersi se il legislatore volesse riferirsi alla sola domanda che instaura il processo, o anche alla domanda riconvenzionale, alla reconventio reconventionis dell’attore, all’intervento autonomo di terzi, alla chiamata di un terzo ad opera di una delle parti.
Ai sensi dell’art. 5 co. 3, è prevista la possibilità di compiere, in corso di mediazione, talune attività quali la trascrizione della domanda giudiziale e di richiedere la concessione di provvedimenti d’urgenza e cautelari. Come è stato osservato in dottrina, l’intenzione del legislatore è chiara: la concessione di un provvedimento cautelare non può essere impedita dal tentativo di mediazione. Sembrerebbe quindi doversi intendere che la domanda di mediazione debba comunque essere proposta prima della domanda cautelare, la qual cosa sarebbe senza dubbio discutibile, soprattutto nell’ipotesi in cui venga richiesto un provvedimento inaudita altera parte.
Anche qui il problema che si pone, nonostante il tentativo del legislatore di salvaguardare la legittimità costituzionale della figura in esame, riguarda la delimitazione delle attività sopra ricordate, in particolare la delimitazione dell’espressione generale provvedimenti d’urgenza e cautelari.
5. Alcune conclusioni
La riforma apportata dal d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, è sicuramente positiva poiché rappresenta la chiara volontà del legislatore di cercare di snellire i procedimenti davanti all’autorità giudiziaria. Creando il nuovo procedimento il legislatore auspica, infatti, che le parti raggiungano velocemente una conciliazione e rinuncino così ad adire l’autorità giudiziaria, con ulteriore dispendio di tempo e denaro. Allo stesso tempo non può negarsi, come ha osservato la dottrina più attenta, che tale decreto ponga non irrilevanti problemi dal punto di vista applicativo, costituzionale, e che talvolta corra il rischio di contraddire lo scopo stesso per cui è stato creato. Non resta ora che attendere l’applicazione del decreto affinché emergano nella pratica i problemi ed eventualmente aspettarsi dal legislatore un intervento correttivo.
(Da Altalex del 5.1.2011. Articolo di Cristiano Cicero)