Cassazione civile, SS.UU., ordinanza 6.12.2010 n° 24689
L’incompatibilità della professione di avvocato per i dipendenti pubblici, sancita dalla legge n. 339 del 2003, la quale prevede si applichi anche a coloro i quali erano già iscritti all’albo degli avvocati prima dell’entrata in vigore della stessa, prevedendo per questi ultimi l’obbligo di opzione entro un termine breve di "moratoria", è sicuramente lesiva del loro legittimo affidamento acquisito.
Sulla base di tale conclusione, la Corte di Cassazione - SS.UU., con ordinanza 6 dicembre 2010, n. 24689 ha rimesso alla Corte Costituzionale, la questione di legittimità della legge citata con riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 Cost.
Il caso ha riguardato alcuni dipendenti pubblici, in regime di lavoro part-time al 50%, iscritti nell’albo degli avvocati anteriormente all’entrata in vigore della legge 25 novembre 2003, n. 339, i quali nonostante l’obbligo di opzione previsto da quest’ultima, hanno mantenuto il rapporto di pubblico impiego, continuando però a svolgere la professione di avvocato e, pertanto, i competenti Consigli dell’Ordine, ritenendo sussistente l’incompatibilità per effetto della predetta legge, hanno disposto la cancellazione dai rispettivi albi.
Tali decisioni sono state impugnate dagli interessati davanti al CNF e, per effetto del rigetto dei loro ricorsi, gli stessi si sono rivolti alla Corte di Cassazione, prospettando, tra le numerose, articolate e complesse questioni anche l'interpretazione della legge n. 339 del 2003 e la sua conformità a norme e principi comunitari e costituzionali.
La decisione è stata rimessa alle Sezioni Unite della Cassazione, le quali, preliminarmente, hanno condiviso la linea interpretativa adottata dal C.N.F. ritenendo il testo di legge in esame sufficientemente chiaro sul fatto che ai dipendenti pubblici, in condizione dei ricorrenti, la legge, prevedendo un periodo di transizione di tre anni, imponesse loro la scelta tra l'esercizio (esclusivo) della professione forense ovvero il ritorno al rapporto di lavoro pubblico a tempo pieno.
Quindi, i giudici di legittimità si sono addentrati nell’attività ermeneutica, c.d. adeguatrice, ossia tale da eliminare i dubbi di legittimità costituzionale.
A tal proposito, hanno sottolineato come il divieto per dipendenti pubblici di esercitare l’attività di avvocato previsto dalla legge n. 339 del 2003 è giustificato in considerazione dell'ottica del pubblico impiego e della garanzia che i dipendenti pubblici siano al solo servizio dell'interesse pubblico.
Pertanto, atteso che il legislatore non ha agito in modo irragionevole o al di fuori della sua sfera di competenza, concludono le S.U. che la legge n. 339 del 2003 non è incompatibile con le disposizioni previste dal diritto comunitario, il quale comunque non disciplina materie giuridiche - come quella contemplata dalla legge. n. 339 del 2003 - nelle quali si esercita il potere pubblico e, pertanto, in dette materie gli Stati membri possono legiferare in assoluta autonomia.
In questo contesto, viene altresì ricordato che anche nell’ordinamento nazionale la questione è stata affrontata più volte anche dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 171 del 1999, Corte Cost. n. 189 del 2001, Corte Cost. n. 390 del 2006), la quale ha sempre respinto tutte le questioni di legittimità sollevate.
Le Sezioni Unite, tuttavia, hanno sottolineato che la Corte Costituzionale, con le citate pronunce, non ha affrontato né il problema della legittimità della L. n. 339 del 2003 nella parte in cui estende i suoi effetti anche a coloro che erano già iscritti negli albi degli avvocati ed esercitavano la professione, sulla base della disciplina preesistente, al momento dell’entrata in vigore della nuova legge, né il problema della legittimità del divieto, sopravvenuto a carico di costoro, di continuare l'esercizio dell'attività professionale già legittimamente intrapresa.
E proprio in relazione a detti problemi, che le S.U. hanno ritenuto che il profilo di illegittimità costituzionale della nuova legge è rilevante e non manifestamente infondato con riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 Cost.
Nella specie, è stato osservato che i soggetti che già si trovavano nello stato di avvocati part-time, per effetto della legge n. 339 del 2003, hanno sicuramente subito un sacrifico, che potrebbe rivelarsi ingiustificato e, perciò, irragionevole, traducendosi nella violazione del legittimo affidamento riposto nella possibilità di proseguire nel tempo nel mantenimento di dello stato.
Invero, risulta palese, per i giudici di legittimità, il fatto che i soggetti ricorrenti avevano fatto sicuro e giustificato affidamento su diversi aspetti, quali mantenere nel tempo la nuova situazione lavorativa, effettuare investimenti per iniziare la nuova attività professionale, modificare il proprio stile di vita, sacrificare possibili miglioramenti nella carriera di pubblico dipendente. Ne discende la lesione di legittime aspettative e di affidamento nella certezza del diritto e nella sicurezza giuridica.
Per tali motivi, la Corte di Cassazione SS.UU. – sospendendo l’efficacia delle decisioni impugnate – ha concluso per la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della legge n. 339, artt. 1 e 2 - sia in relazione ai parametri (artt. 3, 4, 35 e 41 Cost.), sia in riferimento a quelli della ragionevolezza intrinseca della legge (sub art. 3 cpv. Cost.) nella parte in cui non prevedono che il regime di incompatibilità stabilito nell'art. 1 non si applichi ai dipendenti pubblici a tempo parziale ridotto non superiore al 5% per cento del tempo pieno, già iscritti negli albi degli avvocati alla data di entrata in vigore della medesima legge n. 339 del 2003, prevedendo invece, all'art. 2, solo un breve periodo di "moratoria" per l'opzione imposta fra impiego ed esercizio della professione, rimettendo, dunque, la questione alla Corte Costituzionale.
(Da Altalex del 15.12.2010. Nota di Gesuele Bellini)