Leggiamo con sorpresa e disappunto la posizione espressa dalla Commissione Famiglia dell’OUA, in riferimento al DDL 957 sulla modifica della legge sull’affidamento condiviso dei figli. È circostanza incontrovertibile che l’intenzione del legislatore, sia stata travisata o quanto meno disattesa. Nonostante il nomen iuris affibbiato al “nuovo” tipo di affidamento, nell’applicazione pratica, rilevo che a distanza di 5 anni dall’entrata in vigore della legge, il principio della condivisione è rimasto lettera morta, travisando, non solo l’intenzione del legislatore del 2006 ma, altresì svilendo la ratio della norma la quale, aspirava da un lato ad assicurare ai minori una presenza assidua, fattiva, responsabile, costante e duratura di entrambi i genitori nella “cura” di figli, dall’altro a responsabilizzare i genitori affinché il loro ruolo educativo e di assistenza di svolgesse in termini concreti, garantendo una presenza materiale non priva di responsabilità dirette, anche economiche. Il non avere introdotto un regolamento attuativo alla legge 54/2006 ha determinato una deformazione della ratio della norma e ciò attraverso una serie di interventi giurisprudenziali i quali, mediante la creazione di istituti quali il “genitore collocatario” hanno finito per sovrapporre alla legge iniziale, principi applicativi che ne hanno snaturato l’essenza ed il contenuto. Ma, a ben vedere, il compito delle Corti di legittimità e di merito è (o dovrebbe essere) quello di applicare la normativa esistente e di interpretarla laddove non sia chiara l’intenzione del legislatore (o qualora siano presenti lacune). Riteniamo che nel caso della legge 54/2006 l’intenzione del legislatore fosse assolutamente chiara; certamente non poteva essere nella voluta legis, introdurre una legge di riforma che, a dispetto del nome, lasciasse la situazione completamente immutata rispetto al periodo di vigenza delle norma che si intendeva modificare. Specie in considerazione del fatto che, la riforma si annunciava come epocale, andando ad incidere su di un principio fino a quel momento “sconosciuto” o quanto meno residuale nella prassi giudiziaria; vale a dire il principio della bigenitorialità e della condivisione nell’affidamento. È ciò appariva ancor più ambizioso di quanto si potesse pensare, posto che, quando ci riferiamo alla condivisione di un affidamento, esprimiamo indirettamente anche un altro concetto di rilevante portata: il principio della cooperazione. La condivisione di un “bene” prezioso, infatti, comporta che per la cura dello stesso vi sia una stretta cooperazione tra i genitori; cooperazione che non può prescindere da un dialogo serio e da un rapporto che, seppur non più di natura sentimentale, dovrà essere contraddistinto da canoni di correttezza, rispetto e fattiva collaborazione. Chi come noi si occupa da ormai tanti anni quasi esclusivamente di famiglia e minori non potrà non notare che le decisioni dei tribunali di merito, ante e post 2006, sono rimaste pressoché identiche nella loro parte attuativa; ciò che è mutato è unicamente il nome. “Il Tribunale concede l’affido condiviso”: come se per applicare una legge fosse sufficiente citarne il nome ! Il DDL 957 ha il merito di avere in parte interpretato e chiarito cosa si intende per “bigenitorialità” e di avere introdotto una serie di regole applicative che consentono il rispetto di tale principio. Incentrare la questione sulla figura del minore e il suo diritto a una duplice cura, anziché su un trasferimento di denaro fra adulti, significa da un lato avere in maggior considerazione l’interesse dello stesso, dall’altro responsabilizzare ciascun genitore affinché provveda ai bisogni del figlio, esercitando il proprio ruolo non solo mediante l’ erogazione di un sussidio economico, oltre tutto non seguito e non gestito -, ma occupandosi giorno per giorno delle singole necessità e rendendosi conto di quelle che sono le spese necessarie e di quelle superflue. Riteniamo che l’espressione “tenore di vita” riferita ad un figlio sia quanto mai inopportuna e fuorviante: quando si parla di figli ci piacerebbe fare riferimento piuttosto alle loro esigenze e ai loro bisogni, senza che alcuno contesti (e già la norma lo prevede) che, per far fronte a tali necessità, si richieda un maggior impegno economico a carico del genitore più facoltoso, sia per i carichi non legati alla convivenza, sia integrando, ove necessario, le risorse del genitore meno abbiente, in modo da sopperire nel modo migliore alle necessità attuali dei figli. Il riferimento al “tenore di vita pregresso”, viceversa, è un’arida e assurda terminologia, ereditata impropriamente dai rapporti tra i coniugi, che dimentica la fondamentale circostanza che i figli sono soggetti in età evolutiva, per cui le loro esigenze devono essere permanentemente aggiornate. Attribuire, infine, agli ascendenti la possibilità di frequentare i nipoti, sostenendo che si vuole con ciò privare questi ultimi di un diritto loro, non è un capovolgimento della ratio della proposta, che vuole invece rendere effettivo, e non virtuale, il diritto medesimo, atteso che i figli, in quanto minori, sono privi della capacità di agire. Ciò potrebbe bastare, ma più ci preme sottolineare la valenza psicologica della proposta. La relazione nonni nipoti, infatti, lungi dall’essere considerato un terreno fertile per l’esasperazione di conflittualità familiari, rappresenta l’incontro di tre persone che appartengono a generazioni lontane e legate dall’appartenenza ad un’unica stirpe; è la linfa vitale per una vecchiaia serena ed un modo per i bambini di acquisire un immenso bagaglio storico – affettivo, da poter trasmettere quando saranno a loro volta nonni.
Avv. Matteo Santini e Prof. Marino Maglietta (da Mondoprofessionisti dell’8.4.2011)