Cass. Sez. Lavoro, sent. 2.3.2015 n.
4174
La Corte di legittimità ritorna sul fenomeno del mobbing con
una nuova sentenza con la quale afferma la necessaria presenza di comportamenti
persecutori, discriminatori o lesivi della dignità o della salute del
dipendente affinché si possa configurare la condotta in esame (illegittima e
idonea a far sorgere il diritto al risarcimento del danno originato).
Nel
caso di specie, il dipendente di un’amministrazione comunale ricorreva in
giudizio, denunciando di essere stato vittima di comportamenti persecutori
posti in essere dall’amministrazione comunale, attraverso l’assegnazione di
vari e diversi incarichi dequalificanti, tanto da essere utilizzato, affermava
il dipendente comunale, come “tappabuchi”, e di essere stato oggetto di
sanzioni disciplinari arbitrarie, sfociate poi in un provvedimento di
licenziamento.
Tali
circostanze ed eventi erano fonte di un profondo stato di stress del
lavoratore, che lo avevano portato a far ricorso a cure psichiatriche per la
patologia contratta, ascrivibile al mobbing, di cui era stato vittima. Chiedeva
dunque il risarcimento del danno subito e l’accertamento dell’illegittimità del
provvedimento di licenziamento.
Nel
corso della fase istruttoria, la consulenza tecnica d’ufficio aveva attestato
che il disturbo di cui il ricorrente soffriva non aveva origine dal rapporto
lavorativo.
I
giudici di merito, sia in primo che in secondo grado, respingevano la domanda
attorea, constatando la mancanza di idonea prova di comportamenti persecutori,
discriminatori o lesivi della dignità o della salute del dipendente.
A
giudizio della Corte d’appello territoriale, inoltre, i diversi incarichi
assegnati, seppur non definiti nel contratto, erano ricompresi nel livello
professionale in cui era stato inquadrato il dipendente pubblico, escludendo
che l’amministrazione avesse posto in essere comportamenti vessatori e
discriminatori in danno del lavoratore o comunque contribuito ad aggravarne lo
stato di salute mentale.
Avverso
quest’ultima sentenza, il dipendente pubblico proponeva ricorso in Cassazione,
sostenendo che la Corte
d’appello era incorsa in errore nel non rilevare la vessatorietà, l’offensività
e la capacità di danno della condotta posta in essere dall’Amministrazione. Il
giudice di merito non avrebbe proceduto ad una verifica attraverso la
valutazione complessiva dei singoli episodi dedotti in giudizio e il fatto che
il lavoratore avesse svolto il ruolo di “tappabuchi”, svolgendo mansioni
assegnate ad altri dipendenti e diverse da quelle riferibili al proprio
inquadramento professionale.
La Corte di Cassazione ha ritenuto i motivi del ricorso
infondati.
La Corte ha affermato che la fattispecie del mobbing si
realizza attraverso continue condotte vessatorie, poste in essere a danno del
lavoratore, in virtù di un disegno persecutorio. Indispensabile è che
l’interessato, in sede processuale, dimostri il nesso causale tra l’evento
dannoso e l’insorgere della patologia, nonché la idoneità dei comportamenti posti
in essere dal datore di lavoro di generare un protratto stress psicofisico.
Poiché
nel caso in esame il dipendente pubblico non era riuscito a soddisfare tale
onere probatorio e poiché le mansioni che era stato costretto a svolgere sono
state ritenute dal giudice di merito rientranti in quelle del proprio
inquadramento professionale, la
Corte ha concluso per il rigetto del ricorso.
Lorenzo Pispero (da
filodiritto.com del 9.3.2015)