Cass. Sez. II Penale, Sent. 22.1.2015,
n. 2890
La Corte di Cassazione ha stabilito che il datore di lavoro
può installare telecamere nei locali della propria azienda e usare in sede
giudiziaria come prova le registrazioni effettuate se ha come scopo
l’accertamento di comportamenti delittuosi.
Nel
caso in esame, la dipendente di un supermercato era stata denunciata per
essersi appropriata del denaro che riceveva dai clienti. Era stata condannata
dal Tribunale per furto, in appello la
Corte territoriale riqualificava la condotta criminosa nel
reato di appropriazione indebita aggravata.
Avverso
tale sentenza, l’imputata proponeva ricorso in Cassazione, con un unico motivo
di gravame con il quale deduceva l’inosservanza di norme processuali, eccependo
l’inutilizzabilità delle videoregistrazioni effettuate dal datore di lavoro,
per violazione degli articoli 4 e 38 della legge 300/1970 (“Statuto dei Lavoratori”).
La Corte di Cassazione ha stabilito che, in conformità della
giurisprudenza delle Sezioni Penali della Corte, sono pienamente utilizzabili
le videoriprese effettuate attraverso telecamere installate nei luoghi di
lavoro per accertare comportamenti potenzialmente delittuosi.
Il
datore di lavoro, a giudizio della Suprema Corte, può legittimamente installare
nei locali della propria azienda “telecamere per esercitare un controllo a
beneficio del patrimonio aziendale, messo a rischio da possibili comportamenti
infedeli dei lavoratori”, in quanto le citate norme dello Statuto tutelano sì
la riservatezza dei lavoratori ma non fanno divieto dei cosiddetti “controlli
difensivi” del patrimonio aziendale e non vietano il loro utilizzo in sede
processuale.
In
questo caso, l’istallazione era successiva ad un controllo operato dal datore
di lavoro, che rilevava mancati profitti. Questa, dunque, non si poneva come
strumento per controllare a distanza i dipendenti, ledendo il diritto alla
riservatezza dei lavoratori, ma piuttosto per ottenere, sul piano probatorio,
la conferma di ciò che si verificava nella propria azienda, per la difesa del
patrimonio aziendale attraverso la documentazione di attività potenzialmente
criminose.
Ragion
per cui, la Corte
ha rigettato il ricorso dell’imputata perché infondato, condannandola al
pagamento delle spese del procedimento, in base all’articolo 616 del Codice di
Procedura Penale.
Lorenzo Pispero (da
filodiritto.com del 6.2.2015)