TAR
Friuli V.G., sez. I, sent. 3.12.2014 n° 610
Nel
momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione della PEC e di
consegna della stessa nella casella del destinatario, si determina una presunzione
di conoscenza della comunicazione da parte di quest'ultimo analoga a quella
prevista, in tema di dichiarazioni negoziali, dall'art. 1335 c.c.; sicché
spetta a lui, in un'ottica collaborativa, rendere edotto il mittente
incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione
legate all'utilizzo dello strumento telematico.
Con
la sentenza in forma semplificata 3 dicembre 2014, n. 610, la Sez. I del G.A. di Trieste
– prendendo le mosse dallo scrutinio di legittimità di un provvedimento
concernente il divieto di prosecuzione di un’attività oggetto di SCIA disposto,
fra l’altro, perché uno dei file digitali contenenti la documentazione allegata
alla segnalazione non risultava apribile e dunque visionabile - ha chiarito
come la trasmissione a mezzo PEC di istanze e dichiarazioni, se effettuata con
il rispetto dei requisiti formali e normativamente fissati, determini una
presunzione di conoscenza del contenuto della comunicazione in capo al
destinatario.
Da
tale premessa ha tratto, quale logico corollario, il principio per cui incombe
sul destinatario l’onere di informare il mittente nel caso in cui il contenuto
del messaggio non risulti visionabile, non potendo tale problema tecnico
legittimare l’adozione di un provvedimento negativo nei confronti del mittente
incolpevole.
Analisi del caso
Una
società di telecomunicazioni ha compulsato il competente T.A.R. al fine di
ottenere l’annullamento del provvedimento con cui il Comune gli aveva inibito
la prosecuzione dell’attività avviata a seguito di presentazione a mezzo PEC di
una SCIA. Il divieto era motivato, tra l’altro, con riferimento al fatto che
uno dei file, contenente la documentazione allegata alla segnalazione, non
risultava apribile e dunque visionabile.
Varie
le censure dedotte dalla ricorrente avverso tale capo motivazionale del
provvedimento. Ha in particolar modo lamentato una violazione della disciplina
della cd. “amministrazione digitale”, oltreché dei principi del giusto
procedimento, di buona fede, buon andamento e trasparenza dell’azione
amministrativa, invero significando come l’Ente avrebbe dovuto, dinanzi a
un’inaccessibilità del file digitale, avvalersi non già dei poteri inibitori,
bensì di quelli istruttori, chiedendo la produzione – anche in formato cartaceo
– dei documenti mancanti.
La
civica P.A. si è costituita in giudizio e ha chiesto il rigetto del ricorso,
allegando a sostegno della legittimità del proprio operato la convinzione circa
l’inefficacia della SCIA in caso di incompletezza documentale, da cui
scaturirebbe il legittimo esercizio dei poteri inibitori, per contro non
sussistendo – in tale caso – alcun obbligo per l’Amministrazione di domandare
l’integrazione documentale.
La soluzione
Il
Tribunale, respinta l’eccezione sollevata dal Comune di difetto di interesse
della ricorrente alla proposizione del gravame, è passato a vagliare la
legittimità del provvedimento impugnato, segnatamente concludendo per la
fondatezza delle doglianze dedotte dalla società interessata avverso le ragioni
giustificatrici portate dall’Ente a sostegno del divieto.
E
così il Collegio ha, fra le altre cose, censurato la ritenuta idoneità, da
parte della P.A., delle difficoltà cognitive riscontrate in relazione a uno dei
file digitali a sorreggere l’inibizione all’esercizio dell’attività. Dopo aver
posto l’accento sull’equiparazione, quanto al valore giuridico, della PEC alla
posta cartacea raccomandata ha difatti osservato come, a fronte di una SCIA
presentata in via telematica, l’Amministrazione procedente sia innanzitutto
tenuta al rispetto delle regole che ordinariamente informano i rapporti con i
privati e, fra queste, del principio di leale collaborazione.
Ha
in particolar modo posto in rilievo come comportamento conforme a tale
principio sarebbe quello dell’Amministrazione che, trovatasi dinanzi a un
messaggio telematico non visionabile, proceda a informare il mittente delle
difficoltà riscontrate, atteso che nel momento in cui il sistema genera la
ricevuta di accettazione della PEC e di consegna della stessa nella casella del
destinatario, viene a determinarsi una presunzione di conoscenza della
comunicazione da parte di quest’ultimo analoga a quella prevista, in tema di
dichiarazioni negoziali, dall’art. 1335 c.c.
Sicché,
ha osservato il G.A., nel caso di specie il Comune avrebbe dovuto informare la
società del disguido riscontrato fissandole nel contempo un termine per ovviare
al problema, con l’avvertimento che il mancato tempestivo adempimento
dell’incombente avrebbe determinato l’esercizio dei poteri inibitori. Il tutto
si sarebbe peraltro tradotto non già in una richiesta di integrazione
documentale, considerato che i documenti erano stati già inviati, ma in una
sollecitazione alla riproduzione degli stessi in formato visionabile
dall’Amministrazione.
I precedenti e i possibili impatti
pratico-operativi
Solitamente,
a finire sotto la lente del Giudice, sono le questioni concernenti la validità
delle notifiche e delle comunicazioni effettuate via PEC all’interno del
processo. Nella pronuncia in esame, invece, la posta elettronica certificata
viene scrutinata da un diverso angolo visuale, ossia quello relativo
all’utilizzo della stessa nei rapporti tra privati o imprese da un lato e
pubblica Amministrazione dall’altro. È ormai a tutti noto il radicale mutamento
determinatosi, nell’azione amministrativa, a seguito dell’impiego di nuovi
strumenti legati allo sviluppo tecnologico; e, ugualmente noto, è il
potenziamento del cd. “e-government” che ne è scaturito. Non può a tal
proposito non citarsi il padre legislativo di tale cambiamento di rotta, ossia
il D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 contenente il Codice dell’amministrazione
digitale. Se infatti è vero che già anteriormente a esso era possibile
ritrovare all’interno dell’ordinamento giuridico dei riferimenti normativi
all’uso dell’informatica pubblica – si pensi ad esempio all’art. 3-bis inserito
dalla L. n. 15/2005 nella L n. 241/1990 o, procedendo più a ritroso nel tempo,
all’art. 1 del D.Lgs. 12 febbraio 1993, n. 39 – è altresì vero che tali
disposizioni, attualmente in vigore, si traducevano in affermazioni di
principio meramente programmatiche, di certo lontane dal corpo verosimilmente
organico e precettivo cui il Codice dell’amministrazione digitale ha dato vita.
È invero con esso che i cittadini e le imprese sono stati forniti di rilevanti
diritti in materia, primo fra tutti del diritto, giurisdizionalmente tutelato,
di richiedere e ottenere l’uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni
con le pubbliche Amministrazioni (art. 3). Un diritto che poi con il passare
degli anni ha via via assunto contorni più definiti. E così, il D.Lgs. n.
235/2010 ha provveduto a inserire nel Codice l’art. 5-bis, il quale prevede che
la presentazione di istanze, dichiarazioni, dati e lo scambio di informazioni e
documenti, anche a fini statistici, tra le imprese e le Amministrazioni
pubbliche avvenga esclusivamente utilizzando le tecnologie dell'informazione e
della comunicazione e che le Amministrazioni debbano, con le medesime modalità,
adottare e comunicare atti e provvedimenti amministrativi nei confronti delle
imprese. Ancora, lo stesso decreto ha provveduto a modificare il contenuto
dell’art. 6 del Codice rubricato “Utilizzo della posta elettronica
certificata”, il quale ora prevede che per le comunicazioni di cui all’art. 48,
comma 1 – ossia per quelle telematiche che necessitano di una ricevuta di invio
e di una ricevuta di consegna – e con i soggetti che hanno preventivamente
dichiarato il proprio indirizzo ai sensi della vigente normativa tecnica, le
pubbliche Amministrazioni utilizzano la posta elettronica certificata.
Quest’ultima modalità di trasmissione, peraltro, deve alla stregua di quanto
previsto dal già citato art. 48, comma 1 del Codice – nella versione risultante
a seguito delle modifiche portate dal D.Lgs. n. 235/2010 – essere utilizzata da
chiunque si trovi a effettuare una comunicazione che necessiti di una ricevuta
di invio, nonché di consegna. La norma, dunque, procede a delimitare i
contenuti dell’obbligo di utilizzo della PEC avendo riguardo all’obiettivo che
con la comunicazione si vuole raggiungere e non già ai soggetti che si
accingono a effettuarla. Trattasi peraltro di un metodo di trasmissione che,
come innanzi rilevato, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla
notificazione per mezzo della posta (art. 48, comma 2); il che è quanto dire
che la consegna si perfeziona nel momento in cui il messaggio perviene nella
casella di posta elettronica del destinatario. In particolar modo la
comunicazione effettuata a mezzo PEC si intende avvenuta nella data indicata nella
ricevuta di avvenuta consegna fornita al mittente dal gestore di posta
elettronica certificata utilizzato dal destinatario, atteso che la ricevuta di
avvenuta consegna fornisce al mittente la prova che il suo messaggio di posta
elettronica certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo elettronico
dichiarato dal destinatario, certificando il momento della consegna mediante un
testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione. È dunque
pienamente condivisibile l’assimilazione – forgiata dalla pronuncia che qui si
annota - fra presunzione di conoscenza della comunicazione da parte del
destinatario, che punto viene a determinarsi nel momento in cui il sistema
genera la ricevuta di accettazione della PEC e di consegna della stessa alla casella
del destinatario, e quella prevista, in tema di dichiarazioni negoziali,
dall’art. 1335 c.c. Come altrettanto condivisibile è la conclusione che da tale
assunto il Giudice ha tratto. È infatti indubbio che così stando le cose, il
destinatario debba, nel caso in cui riscontri delle difficoltà nella presa
visione dei documenti trasmessi via PEC, informare il mittente di una tale
circostanza, onde fornirgli la possibilità di rimediare a tale inconveniente.
Una diversa soluzione, invero, oltre a porsi in contrasto con i basilari
principi di civiltà giuridica, verrebbe a collidere con alcune disposizioni
presenti nel sistema che, seppur normando altri e diversi aspetti, paiono
comunque dettare delle linee guida da seguire in questa fattispecie che presenta
i caratteri dell’atipicità.
Per
quel che ad esempio concerne la
SCIA, è sufficiente soffermarsi sul contenuto del comma 3
dell’art. 19 della L. n. 241/1990 per rendersi conto di quanto fondata sia la
conclusione attinta nel caso di specie dal Collegio triestino. Siffatta
disposizione disciplina, fra l’altro, il potere di inibizione di cui
l’Amministrazione dispone per sessanta giorni dal ricevimento della
segnalazione. Si prevede, in particolar modo, che ove in tale lasso di tempo la P.A. riscontri una carenza
dei requisiti e dei presupposti normativi per l’esercizio dell’attività oggetto
di segnalazione, essa debba adottare un motivato divieto di prosecuzione della
stessa e di rimozione degli eventuali effetti dannosi. Se, dunque, il potere
inibitorio può essere esercitato soltanto in caso di accertata carenza dei
requisiti e presupposti normativi di cui al comma 1 della medesima norma, non
può che apparire eccedente da tale potere il provvedimento di inibizione
sorretto da una mera difficoltà di consultazione, da parte della P.A., della
documentazione tempestivamente allegata alla SCIA ma non visionabile, se non
altro perché appare difficile in tal caso parlare di carenza in senso tecnico;
senza peraltro considerare che seppur di carenza, magari in senso atecnico,
voglia parlarsi essa non sarebbe neanche imputabile al segnalante. Ma v’è di
più. Se, infatti, si prosegue nella lettura del comma 3 succitato si legge come
l’Amministrazione possa, ove possibile, e in alternativa alla comminatoria del
divieto di prosecuzione dell’attività, invitare l’interessato a conformare
l’attività e i suoi effetti alla normativa vigente entro un termine stabilito
dall’Amministrazione, comunque non inferiore a trenta giorni. Sicché è evidente
che se il legislatore ha consentito una sanatoria da parte dell’interessato,
benché ove possibile e su invito dell’Amministrazione, nel caso in cui a venire
in rilievo sia la difformità dell’attività iniziata e dei suoi effetti rispetto
alla normativa vigente, non si possa poi negare al soggetto incolpevole la
possibilità di sanare un mero disguido collegato all’utilizzo di uno strumento,
la PEC, il cui
utilizzo è peraltro ex lege imposto.
Allargando
l’orizzonte non si può poi fare a meno di rilevare come, anche in altri ambiti,
la voluntas legis sia orientata a un favor nei confronti del soggetto che con
l’Amministrazione viene a confrontarsi. Si pensi ad esempio al soccorso
istruttorio disciplinato in termini generali dall’art. 6, comma 1, lett. b)
della L. n. 241/1990 e, in relazione alle gare d’appalto, dal combinato
disposto dei commi 2-bis dell’art. 38 e 1-ter dell’art. 46 del D.Lgs. n.
163/2006, per come recentemente introdotti dal D.L. n. 90/2014 conv. dalla L.
n. 114/2014. Non ci si vuole in questa sede soffermare sul contenuto specifico
di tali disposizioni. Preme soltanto dire ch’esse paiono creare l’immagine di
un’Amministrazione pronta a concedere una seconda chance (più o meno gratuita)
a coloro che nell’interfacciarsi con essa si siano resi responsabili di
irregolarità, omissioni, dimenticanze. Un’immagine che, a parere di chi scrive,
non pare potersi legittimamente dissolvere quando, come nel caso qui esaminato,
il soggetto non sia reso responsabile di alcunché bensì risulti soltanto
vittima incolpevole di un inconveniente facilmente rimediabile.
(Da Altalex del
16.1.2015. Nota di Michele Didonna tratta da Il Quotidiano Giuridico Wolters
Kluwer)