Il rilascio del certificato di idoneità allo svolgimento dell’attività sportiva, pur con diagnosi di patologia cardiaca, non costituisce un presupposto sufficiente a fondare la responsabilità del medico ove il danneggiato non fornisca la prova del nesso di causalità tra la sottovalutazione della patologia e l’evento fatale. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione nella sentenza n. 20996/2012.
Il caso. Un adolescente, affetto da stenosi dell'aorta, venne colto da morte improvvisa mentre stava facendo dei blandi esercizi di riscaldamento a bordo campo, presso il campetto dell'oratorio da lui frequentato. I familiari del ragazzo chiedevano il risarcimento dei danni per la morte del minore al medico specialista che lo aveva visitato accertando una lieve patologia cardiovascolare compatibile con l'attività sportiva. Tuttavia, i supremi giudici ne hanno respinto il ricorso, escludendo ogni responsabilità medica.
Il giudizio di legittimità. In particolare, il dottore, secondo la Corte di Appello di Milano, aveva senz'altro sottostimato la patologia di cui soffriva il ragazzo ma, tuttavia, la asintomaticità del paziente, unita alla sua obesità, rendeva di difficile valutazione l'entità della malformazione dell'aorta. I periti, inoltre, avevano evidenziato che la sottovalutazione "non aveva avuto alcun impatto significativo sulla dinamica degli eventi, in quanto anche una diagnosi più precisa non avrebbe potuto consigliare un approccio più aggressivo (in particolare l'intervento chirurgico)". L'attività sportiva, d'altra parte, "è consigliata ai cardiopatici, ai quali deve essere interdetta la sola attività agonistica", concludevano i periti. La corte milanese pertanto, con verdetto convalidato dalla Cassazione, aveva escluso che "tra il decesso e l'emissione del nulla-osta potesse sussistere un nesso di causalità, tanto più che la morte era sopraggiunta in condizioni di quasi riposo o di riscaldamento, e la stenosi aortica può, purtroppo, condurre alla cosiddetta 'morte improvvisa', evento non prevedibile e non evitabile neppure con l'intervento chirurgico". In primo grado, invece, lo specialista era stato ritenuto responsabile al 55% della morte di Massimiliano, con concorso di colpa dei genitori del ragazzo che non avevano illustrato "adeguatamente" al dottore "l'esistenza di una malformazione cardiaca e l'intenzione del loro figlio di prendere parte alle attività sportive di una squadra di calcio". In considerazione della "tragicità dell'evento, dei discordanti esiti dei due giudizi di merito e della complessità e delicatezza delle questioni giuridiche trattate", la Cassazione ha suddiviso a metà il pagamento delle spese processuali tra i familiari del ragazzo e il medico chiamato in causa.
(Da avvocati.it del 6.12.2012)