Trib. Lecce, sez. commerciale,
ordinanza 12.2.2014
Un
ordinamento costituzionalmente orientato, come è (o dovrebbe essere) quello
italiano, si caratterizza per la presenza di “presidi” legislativi posti a
tutela dei soggetti più deboli, in ossequio al dettato costituzionale, il
quale, per citare uno solo dei principi che si muovono in questa direzione
(art. 2), impone alla Repubblica
“l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e
sociale”.
In
maniera sempre più frequente, tuttavia, si assiste a soluzioni legislative
discutibili, sotto un profilo tecnico-giuridico, inique e palesemente in
contrasto con i principi sanciti dalla Carta Costituzionale.
In
sede di opposizione all’esecuzione mobiliare, dinanzi al Tribunale di Lecce, è
stata seguita la posizione di un titolare di conto corrente, le cui somme ivi
presenti erano state interamente pignorate, pur trattandosi di un c/c le cui
uniche operazioni “in entrata” erano analiticamente riportate, e rubricate
sotto apposita dicitura: “ pagamento di indennità di disoccupazione ASPI”.
L’indennità
di disoccupazione si manifesta, nel caso di specie, come l’unica fonte di
reddito del pignorato, attraverso la quale lo stesso doveva fare fronte a tutte
le esigenze di vita e di sostentamento personale e familiare.
Ci
si trovava, insomma, di fronte ad un conto corrente bancario che non si
presentava come un complesso “deposito” di somme di denaro rinvenienti da
diverse fonti di ricchezza, quanto piuttosto come un’oggettiva vetrina di una
condizione di precarietà economica, affrontata dignitosamente attraverso
strumenti di assistenza sociale propri di un moderno Stato di diritto.
Lo
stesso c/c, lungi dall’essere un’opzione liberamente individuata dal pignorato,
risultava piuttosto essere una necessità, imposta da un rinnovato quadro
normativo, sul quale ci si sofferma brevemente.
Le
origini della questione in analisi possono farsi risalire al decreto legge n.
201/2011 (cd. Decreto “Salva-Italia”, successivamente convertito in legge n.
214/2011).
Tra
le tante, questa legge contiene disposizioni finalizzate alla lotta
all’evasione, introducendo criteri più stringenti nella tracciabilità dei
pagamenti, anche da parte della pubblica amministrazione ( per l’appunto,
pensioni, sussidi et similia).
Nello
specifico, l’art. 12 della suddetta norma, al comma 2 lett. c), prevede che “lo
stipendio, la pensione, i compensi comunque corrisposti dalla pubblica
amministrazione (…) e ogni altro tipo di emolumento a chiunque destinato, di
importo superiore a cinquecento euro, debbono essere erogati con strumenti
diversi dal denaro contante ovvero mediante l’utilizzo di strumenti di
pagamento elettronici bancari o postali, (…) Il limite di importo di cui al
periodo precedente può essere modificato con decreto del Ministero
dell’economia e delle finanze”.
Limite
che, di lì a poco, è stato aumentato a mille euro.
Alcuni
mesi dopo, con il DL n. 16/2012, convertito in legge n. 44/2012, sono stati
introdotti nuovi limiti in tema di pignoramento presso terzi, in particolare
per il pignoramento dello stipendio e pignoramento della pensione.
La
disposizione di riferimento nel decreto legge n. 16/2012 (cd. “decreto
Semplificazioni”) convertito in legge n. 44/2012 è l’art. 3, comma 5, che ha
aggiunto, nel D.p.r. n. 602/1973, in materia di pignoramento presso terzi
disposto dall’agente della riscossione, quindi sostanzialmente in tema di
pignoramenti Equitalia, l’art. 72-ter, recante il titolo “Limiti di pignorabilità”
, secondo il quale:
“Le
somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al
rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di
licenziamento, possono essere pignorate dall’agente della riscossione:
a)
in misura pari ad 1/10 per importi fino a 2.500,00 euro;
b)
in misura pari ad 1/7 per importi da 2.500,00 a 5.000,00 euro”.
Si
conclude la norma in oggetto, affermando che
“Resta
ferma la misura di cui all’articolo 545, comma 4, c.p.c., se le somme dovute a
titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di
lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, superano
i cinquemila euro”.
Nessuna
delle summenzionate disposizioni normative, insomma, va nella direzione dell’abrogazione
formale dell’art 545 c.p.c., il quale stabilisce la regola generale del limite
di pignorabilità dei crediti cd. “alimentari”, in un importo pari ad 1/5 delle
somme dovuto a titolo di stipendio, pensione o altri emolumenti equivalenti.
Tuttavia,
l’applicazione della prima delle due norme menzionate (l’art. 12 legge n.
214/2011, al comma 2 lett. c), comporta uno svuotamento sostanziale del campo
di applicazione della disposizione processualcivilistica.
Il
sistema ereditato presenta caratteri di profonda iniquità ed ingiustizia
sociale, oltre che storture giuridico - costituzionali evidenti.
In
sostanza, il limite di un quinto opera quando il pignoramento avvenga
direttamente alla fonte, ossia direttamente da parte dell’ente previdenziale o
del datore di lavoro.
Se
effettuato in un secondo momento, invece, il pignoramento dello stipendio,
della pensione o di altro emolumento pubblico avviene presso la banca dove il
dipendente o pensionato deposita le somme ricevute mensilmente, e il limite di
un quinto non opera più.
Ciò
significa che il limite del quinto pignorabile della pensione o dello stipendio
viene legalmente superato, e chi deve riscuotere un credito può rifarsi
direttamente, senza alcun limite, sul denaro che il soggetto detiene sul conto,
quindi anche su tutta la pensione o tutto lo stipendio.
Questo,
si badi bene, avviene in maniera arbitraria ed immotivata, tenendo conto che un
conto corrente bancario o postale è un prospetto analitico in cui ogni voce “in
entrata” ed “in uscita” è distinta dall’altra, oltre che facilmente
identificabile.
In
sede di opposizione e nelle successive memorie autorizzate, pertanto, è stata
sollevata la questione di costituzionalità dell’art 12 comma 2 lett. c del cd.
“decreto Salva-Italia”, evidenziando in particolare due profili di
incostituzionalità.
Il
primo è certamente quello riconducibile all’art. 38 Cost., (diritto al
mantenimento e all’assistenza sociale).
Si
può notare infatti come un imponente stop a questo fragile castello di
motivazioni giuridiche che hanno aperto la strada al vessatorio pignoramento
totale di pensioni, sussidi e altri trattamenti previdenziali, provenga
direttamente dalla Corte Costituzionale che, in diverse circostanze, ha rivolto
un monito al Legislatore, in merito al valore sociale e solidaristico sotteso a
norme come il già citato art 545 c.p.c, collegandole direttamente proprio al
disposto dell’art. 38 Cost.
In
particolare, investita di questioni inerenti il pignoramento di somme di denaro
rientranti nelle categorie di cui sopra, ha la Suprema Corte ha
sempre esplicitamente sottolineato l’invalicabile limite contenuto nella
disposizione codicistica.
Fondamentale,
anche perché richiamata in tutte le sentenze successive sul punto (in misura
diversa, sent. 44/2005; sent. 256/2006; sent. 183/2009), è la sentenza
n°506/2002, che, rivolgendosi sia alle pensioni erogate dall’I.N.P.S., così
come quelle proprie del settore pubblico (I.N.P.D.A.P.), ha confermato la
pignorabilità delle pensioni - nella consueta misura del quinto - da determinarsi
“sulla parte aggredibile del trattamento in quanto eccedente le esigenze minime
di vita del pensionato (diversamente, la parte necessariamente destinata a
soddisfare tali esigenze, resta sottratta ad ogni pretesa esecutiva)” .
E’
la stessa sentenza n. 506/2002 della Corte Costituzionale a spiegare la portata
solidaristica dell’art 38 della Costituzione e perché il legislatore abbia
impostato l’art. 545 del c.p.c. sulla base dello stesso:
“L’art.
38, secondo comma, Cost. è certamente norma che – sancendo il diritto dei
lavoratori, in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e
disoccupazione involontaria, a che siano "preveduti ed assicurati mezzi
adeguati alle loro esigenze di vita" - si ispira a criteri di solidarietà
sociale e "di pubblico interesse a che venga garantita la corresponsione
di un minimum", il cui ammontare è ovviamente riservato all’apprezzamento
del legislatore”.
Pertanto,
il pubblico interesse – in cui si traduce il criterio di solidarietà sociale –
a che il pensionato goda di un trattamento "adeguato alle esigenze di
vita" può, ed anzi deve, comportare – oltre che un dovere dello Stato -
anche una compressione del diritto di terzi di soddisfare le proprie ragioni
creditorie sul bene-pensione, ma è anche vero che tale compressione non può
essere totale ed indiscriminata, bensì deve rispondere a criteri di
ragionevolezza che valgano, da un lato, ad assicurare in ogni caso (e, quindi,
anche con sacrificio delle ragioni di terzi) al pensionato mezzi adeguati alle
sue esigenze di vita e, dall’altro lato, a non imporre ai terzi, oltre il
ragionevole limite appena indicato, un sacrificio dei loro crediti, negando
alla intera pensione la qualità di bene sul quale possano soddisfarsi”.
Il
presidio costituzionale (art. 38), dunque, non è tale da comportare, quale suo
ineludibile corollario, l’impignorabilità dell’emolumento pubblico, ma soltanto
l’impignorabilità assoluta di quella parte di esso che vale, appunto, ad
assicurare quei "mezzi adeguati alle esigenze di vita" che la Costituzione impone
siano garantiti.
E’
sufficiente chiaro, dunque, che il legislatore costituente, nel prevedere
l’art. 38, ha
immaginato una costruzione giuridica che, in nome di ineliminabili principi di
solidarietà sociale, imponga limiti ben determinati, rispettivamente in capo al
legislatore ordinario (nel rapporto con i cittadini) e al creditore pignorante
(nei rapporti inter privatos).
Nulla
rilevando, da questo punto di vista, il fatto che il pignoramento avvenga o
meno “presso terzi”.
Secondo
profilo di incostituzionalità evidenziato, è quello relativo all’art. 3 Cost.
Si
fa riferimento, in particolare, alla lettura che la giurisprudenza della
Suprema Corte ha dato del principio di eguaglianza, da intendersi anche come
generale principio di ragionevolezza.
Il
principio di ragionevolezza ha ormai guadagnato una propria autonomia rispetto
al testo della Costituzione[1], assumendo un connotato conformativo rispetto ad
ogni parametro costituzionale.
Da
qui deriva la pervasività di questo canone di riferimento per l’ordinamento,
oltre che la sua natura di principio costante e onnipresente nella
giurisprudenza costituzionale, come da più parti è stato osservato[2].
E’
sufficiente far notare che il giudizio sulle leggi non può risolversi in un
confronto meccanico tra due regole, ma richiede di valutare la rispondenza di
una legge ad un principio o a un valore. Per comprendere la rispondenza di una
legge a un principio o a più principi costituzionali occorre introdurre un
ulteriore fattore: l’apertura della ragione ai dati della realtà.
Non
a caso, in molti modi e in molteplici occasioni la Corte costituzionale ha
definito la ragionevolezza come una forma di razionalità pratica[3].
Nel
giudizio di ragionevolezza, la ragione è dunque costituita dall’impatto che il
dato normativo produce sul caso, sul fatto, sul dato di realtà e di esperienza
viva.
Come
evidenziato da autorevole dottrina[4], tale giudizio, dunque, suggerisce al
giudice una valutazione prudenziale, in cui l’indagine tiene conto delle
conseguenze e degli effetti delle leggi. Solo così si può valutare
l’adeguatezza del mezzo al fine, l’irragionevolezza intrinseca, gli esiti
paradossali che possono prodursi da una regola apparentemente logica, al
variare dei dati del contesto, o più semplicemente al trasformarsi
dell’ordinamento normativo.
Queste
premesse di carattere giuridico-sistematico trovano palese conferma nella giurisprudenza
costituzionale.
Si
può notare infatti, come la diversità di trattamento giuridico che si viene a
determinare tra il pignoramento effettuato alla fonte dal datore di lavoro/ente
previdenziale o assistenziale e quello effettuato sulle somme confluite su
conto corrente bancario/postale aperto esclusivamente per il transito
dell’emolumento, non trovi conforto nella giurisprudenza costituzionale, la
quale ha più volte precisato che la legge deve regolare in maniera uguale
situazioni uguali ed in maniera razionalmente diversa situazioni diverse.
Così,
“il principio di eguaglianza è violato anche quando la legge, senza un
ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino
in eguali situazioni” (Cort. Cost. sent. n. 15/1960), poiché “l’art. 3 Cost.
vieta disparità di trattamento di situazioni simili e discriminazioni
irragionevoli” (Cort. Cost. sent. n. 96/1980).
Ne
deriva, dunque, la violazione del principio di ragionevolezza “quando, di
fronte a situazioni obbiettivamente omogenee, si ha una disciplina giuridica
differenziata, determinando discriminazioni arbitrarie ed ingiustificate”
(Cort. Cost. sent. n. 111/1981).
Illuminante
appare sul punto la lettera della sent. n. 163 del 1993: “il principio di
eguaglianza comporta che a una categoria di persone, definita secondo
caratteristiche identiche o ragionevolmente omogenee in relazione al fine
obiettivo cui è indirizzata la disciplina normativa considerata, deve essere
imputato un trattamento giuridico identico od omogeneo, ragionevolmente
commisurato alle caratteristiche essenziali in ragione delle quali è stata
definita quella determinata categoria di persone”.
E’
stata pertanto posta una seconda pregiudiziale di costituzionalità, giungendo a
chiedere la rimessione alla Corte Costituzionale dell’art. 12 comma 2 lett. c)
L.n. 214/2011, per violazione degli
artt. 38, e 3 della Costituzione, nella parte in cui non ha previsto che siano
fatte salve le limitazioni in materia di pignoramento di cui all’art. 545
c.p.c.
La
natura codicistica di quest’ultima disposizione normativa, tra l’altro, non
costituisce assolutamente limitazione alcuna a considerarla norma generale
espressione di un principio generale. Tanto per il significato
costituzionalmente orientato (in ossequio all’art. 38 Cost), sul quale ci si è
soffermati in precedenza, quanto per altro ordine di considerazioni,
riconducibile, ancora una volta, all’art. 3 Cost. e al principio di
ragionevolezza.
La
giurisprudenza costituzionale ha mostrato come la ragionevolezza possa essere,
di volta in volta, rappresentata come coerenza, congruenza, congruità,
proporzionalità, necessità, misura, pertinenza, e così via.
Con
particolare riferimento alla coerenza logica della norma, questa può (anzi,
deve) essere riferita anche al sistema, al quadro normativo o ai principi
generali del sistema[5].
La
valutazione sulla coerenza di una disposizione normativa non può non investire
direttamente il sistema, riconoscendone la “intrinseca coerenza/incoerenza
ovvero la distonia”[6] .
Si
fa notare addirittura, come non siano mancate, nell’evoluzione storica e
semantica del principio di ragionevolezza nell’ambito della giurisprudenza
costituzionale, ipotesi nelle quali il sindacato di ragionevolezza si sia
realizzato facendo ricorso a concetti esterni all’ ordine giuridico.
Il
canone di ragionevolezza è stato dunque configurato come “conformità
dell’ordinamento ai valori di giustizia ed equità” (Cort. Cost. n. 2647/1994 e
n. 388/1995); oppure è stato fondato “sulla realtà fattuale o sulle conoscenze
scientifiche, quali dati condizionanti in modo oggettivo ed incontrovertibile”
(sentenza n. 114 del 1998).
Affermazioni
quali “...si appalesa irragionevole siccome non rispondente all’esigenza di
conformità dell’ordinamento ai valori di giustizia ed equità connaturati al
principio sancito dall’ art. 3 della Costituzione...” (Cort. Cost. n. 52 del
1996) , oppure dichiarazioni di
illegittimità costituzionale basate su “una probabile dimenticanza del
legislatore” (Cort. Cost. sent. 476/2002), non fanno che confermare quanto
appena rilevato.
Il
Tribunale di Lecce, nella persona del Dott. Alessandro Maggiore, con ordinanza
del 12 febbraio 2014, ha
sposato totalmente la tesi difensiva degli scriventi, accogliendo l’eccezione e
rimettendo la questione alla Corte Costituzionale, per violazione degli artt.
38 e 3 Cost.
La
Suprema Corte è ora
chiamata ad esprimersi sulla costituzionalità di tale norma che, alla luce del
dettato costituzionale e di un’abbondante giurisprudenza sul punto, è quanto
meno discutibile.
La
notizia, rimbalzata su vari giornali, ha subito attratto il consenso popolare
(cfr. commenti sul Blog
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/13/pignorabilita-di-stipendi-e-pensioni-adusbef-contro-il-salva-italia/879640/
), nonché quello politico.
L’auspicio
è quello di addivenire ad una pronuncia di incostituzionalità, che dia
nuovamente alla norma che prescrive il limite assoluto di pignorabilità di un
quinto piena “cittadinanza” nel nostro ordinamento.
(Da Altalex del
17.3.2014. Nota di Antonio Tanza e Alessandro Martines)
___________________________
[1] G. Scaccia,
Controllo di ragionevolezza delle leggi e applicazione della Costituzione, in
Nova juris interpretatio, Roma 2007
[2] L. Paladin, Ragionevolezza (principio di), in
Enc. Dir., Aggiornamento, I, Milano, 1997
[3] Cfr. Corte Cost.
sent. n° 1130/1988
[4] Cfr. M. Carabia “I
principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza
costituzionale italiana”; L. Mengoni, “Il diritto costituzionale come diritto
per principi”
[5] Nella sentenza n.
84 del 1997, la
Corte Costituzionale ha, sul punto, così chiaramente
statuito:
“La semplice
constatazione che le due norme poste a raffronto facciano parte di sistemi
distinti ed autonomi non basta ad escludere che sia irragionevole il risultato
normativo: il canone della ragionevolezza deve trovare applicazione non solo
all’ interno dei singoli comparti normativi, ma anche con riguardo all’intero
sistema”.
[6] Corte Cost. sent.
nn. 3 e 26 del 2007.