Corte dei Conti, sent. n. 33/2015
I
giudici contabili l’hanno definita “la corsa alla corrispondenza riparatrice”,
i comuni cittadini la chiamano più semplicemente “scaricabarile”. E’ l’arte –
se così possiamo dire – di addossare ad altri uffici la colpa dell’inerzia del
proprio, mettendo nero su bianco il “parere contrario” ma lasciando però che le
cose continuino nel solito modo, il che nella maggior parte dei casi
rappresenta una danno per le casse pubbliche – cioè per le tasche dei cittadini
– quando non arrivi direttamente a intaccare il loro portafogli.
E’
un vizio tutto italiano, al pari di quello di fare i furbi e magari avere un
doppio lavoro; ma intendiamoci, non di quelli che si fanno per sbarcare il
lunario, ma che invece alcuni medici utilizzano per lucrare sia sui pazienti
che sullo Stato, mandando così definitivamente in tilt le casse pubbliche e
rovinando, peraltro, anche l’immagine stessa del settore che invece è pieno di
dottori volenterosi e irreprensibili. Ma non tutti sono così.
L’ultima
condanna della Corte dei Conti (sentenza 33/2015) in questo senso risale ad
appena qualche giorno fa, depositata il 15 gennaio scorso. Nel mirino una Asl
del Lazio – quella di Frosinone – ma i magistrati hanno chiarito che è un vizio
non esclusivo, purtroppo, di questa regione. In sostanza, per dieci anni –
nonostante tutte le direttive nazionali e regionali imponessero un contenimento
della spesa sanitaria – il blocco delle ore all’interno delle strutture non ha
portato a una riorganizzazione del settore ma ad un continuo utilizzo degli
straordinari, ovviamente super pagati , per mantenere gli standard di servizio
all’utente. Si dirà: era necessario per garantire i malati. La risposta la dà
direttamente la Corte
dei Conti: “Si è assistito ad una completa inerzia operativa e ad una
contrapposta cospicua e infruttuosa corrispondenza tra la Ausl di Frosinone e la Regione Lazio (oltre
a quella tra i vertici interni dell’Azienda) alla quale si vorrebbe attribuire
valenza di esimente dalle responsabilità alla luce dei vincoli che il Piano di
rientro del disavanzo imponeva”.
Si
è così protratto negli anni, in presenza di un’obiettiva carenza di personale
prevalentemente medico, l’automatico ricorso all’acquisto di prestazioni
aggiuntive che avrebbe dovuto essere straordinario e temporaneo e che invece
era diventato uno strumento normale per superare ogni esigenza di soddisfazione
della domanda sanitaria. Per dirla in parole povere, sarebbe stato più
conveniente fare assunzioni a tempo indeterminato che pagare quegli
straordinari. E’ uno di quei casi in cui la necessità di diminuire la spesa
(peraltro figlia anch’essa degli sprechi degli anni precedenti) viene usata
come scusa per “proteggere” una certa casta, facendosi favori reciproci. Per i
giudici infatti “i dirigenti, funzionari e amministratori pubblici della Asl le
hanno (le prestazioni straordinarie, ndr) tacitamente autorizzate nonché i
funzionari della Regione Lazio hanno avallato tutto anche mediante il
silenzio-assenso”.
Nella
sanità malata capita però anche altro. Come il caso del direttore del
Dipartimento medicina procreazione ed età evolutiva dell’Università di Pisa,
che pur avendo un incarico di prestigio nella sanità pubblica visitava i
pazienti privatamente, in assenza di autorizzazione a volte presso Centri di
Cura d’eccellenza a Cagliari piuttosto che Roma, o anche presso studi medici di
colleghi compiacenti, incassando direttamente i relativi proventi in violazione
dell’art. 8 del regolamento emanato dall’Azienda ospedaliero-universitaria
Pisana per la disciplina dell’attività libero-professionale intramuraria. Tanto
per non farsi mancare nulla, pur avendo riportato sul cartellino presenze il
giustificativo “congresso”, svolgeva anche attività professionale privata o comunque
non si trovava impegnato in attività di congressi o convegni.
Sia
nel primo episodio che nel secondo la
Corte dei Conti ha scovato l’arcano e ha condannato i medici
coinvolti al risarcimento di circa 150 mila euro per caso. Ma è solo la punta
dell’iceberg. Quanti furbi proseguono non visti a lucrare sulle spalle dei
pazienti? Quanti contravvengono alle regole? Chi li controlla? Va modificata la
cultura, iniziando a inculcare l’onestà dalle scuole (dovrebbe essere
lapalissiano, ma così non è), per non dover ancora per troppi anni rincorrere
gli sprechi con le sirene delle forze dell’ordine accese. In queste storie
simbolo di un’Italia che deve assolutamente cambiare passo restano mille
domande irrisolte. Una sola certezza: a pagare, in tutti i sensi, sono sempre e
solo i cittadini.
Angelo Perfetti (da
interris.it del 25.1.2015)