L’insieme
dei principi elaborati dal Consiglio consultivo dei Procuratori europei (CCPE)
nella cosiddetta Carta di Roma induce a riflettere sullo status e
sull’organizzazione del pubblico ministero italiano. Sebbene questa ribadisca
il carattere gerarchico dell’organizzazione delle procure, sottolinea
fortemente la necessità che i pubblici ministeri siano indipendenti, autonomi e
imparziali, riconoscendone il ruolo essenziale a garanzia dello Stato di
diritto. Si afferma testualmente che: “I membri del pubblico ministero
contribuiscono ad assicurare che lo stato di diritto sia garantito da
un’amministrazione della giustizia equa, imparziale ed efficiente. I
procuratori agiscono per rispettare e proteggere i diritti dell’uomo e le
libertà fondamentali…”.
Condizione
necessaria affinché il pm europeo possa garantire lo stato di diritto è che ne
siano riconosciute l’indipendenza e l’autonomia le quali “costituiscono un
corollario indispensabile dell’indipendenza del potere giudiziario” in
parallelo a ciò che stabilisce la Costituzione italiana.
Questa
visione dell’organo requirente è in linea con l’elaborazione giuridica italiana
in cui il procuratore ha funzioni di primaria tutela dell’interesse dello Stato
al rispetto della Carta Costituzionale e della legge, ed è rivolto alla ricerca
della verità attraverso “accertamenti su fatti e circostanze a favore della
persona sottoposta ad indagini” (art 358 c.p.p.).
Ma
questo modello di pubblico ministero è compatibile con il diritto civile di
ogni cittadino, pm compreso, a scendere nell’agone politico? A riguardo, la Carta di Roma invita i
procuratori non solo ad essere imparziali ma ad apparire tali astenendosi “da
attività politiche incompatibili con il principio di imparzialità”.
Il
principio trova nella normativa italiana una previsione in completa sintonia.
L’art. 8 d.P.R. nr 361/1957 prevede che “i magistrati che sono stati candidati
e non sono stati eletti non possono esercitare per un periodo di cinque anni le
loro funzioni nella circoscrizione nel cui ambito si sono svolte le elezioni”.
La ratio va individuata nell’inopportunità che colui che ha svolto una campagna
elettorale esprimendo posizioni politiche legate a quel territorio ritorni in
servizio nella medesima circoscrizione.
La
normazione secondaria del CSM (Circolare n. 12046/09 e succ. mod) non prevede
un obbligo generale di mutare le funzioni da requirenti a giudicanti dopo il
ritorno in ruolo per mancata elezione, ma solo se la candidatura è intervenuta
nel distretto di svolgimento delle funzioni. Ciò esprime l’esigenza di evitare
al magistrato i rischi di una eccessiva sovraesposizione e di un potenziale
appannamento dell’immagine di indipendenza e terzietà.
La Carta di Roma, però, va oltre, delineando un pubblico ministero
manager, il quale, essendo responsabile del “funzionamento efficiente, rapido
ed efficace del sistema giudiziario” dovrebbe anche essere in condizione di
gestire le risorse (personale, tecnologie, bilancio finanziario) a sua
disposizione.
L’affermazione
che il pubblico ministero debba essere in grado di “negoziare il proprio budget
e decidere come utilizzare in modo trasparente i fondi stanziati” non è usuale
nel nostro ordinamento in cui la gestione delle risorse economiche si collega
ad un’idea manageriale del ruolo direttivo del magistrato (sia requirente che
giudicante) verso la quale si registra ancora una certa resistenza culturale.
In
conclusione può evidenziarsi che la
Carta di Roma, seppur prendendo le mosse da una cornice
organizzativa gerarchica del pubblico ministero, ne accentua l’indipendenza e
l’autonomia, in piena sintonia con la Carta Costituzionale
italiana, suggerendo, in prospettiva europea, un modello di organo requirente,
simile a quello italiano, la cui organizzazione sia funzionale alla tutela dei
diritti fondamentali dell’individuo.
Ilaria Perinu (da In
Terris del 21.4.2015)