Non qualsiasi rapporto dell’avvocato
con i testi
sconfina nell'illecito disciplinare.
Vediamo entro quali limiti è possibile
il contatto
Fra
le diverse problematiche “deontologiche” che l’avvocato deve affrontare
nell’esercizio della sua attività una delle più delicate è il rapporto dello
stesso con i testimoni (ovvero, con le persone informate sui fatti, nel
processo penale). E ciò per ovvi motivi che possono ricollegarsi ai rapporti
con il cliente, alle dichiarazioni rese e di conseguenza all’esito (positivo o
negativo) della causa), ma anche ai rapporti con la controparte e il giudice.
È
quindi naturale che il codice deontologico forense abbia fissato una regola ad
hoc sui rapporti dell’avvocato con i testimoni che è quella di cui all’attuale
art. 55. Secondo la prima parte della disposizione, “l’avvocato non deve
intrattenersi con testimoni o persone informate sui fatti oggetto della causa o
del procedimento con forzature o suggestioni dirette a conseguire deposizioni
compiacenti”.
Com’è
evidente non si tratta di un divieto assoluto, ma di una sorta di “disciplina”
del contatto.
In
sostanza, nulla sembra vietare all’avvocato di scambiare “due chiacchiere” con
i potenziali testimoni o di andare a prendere un caffè al bar, purché i
contatti non siano tesi ad ottenere un “vantaggio” processuale, ovvero ad
esercitare appunto le forzature o le suggestioni finalizzate ad ottenere
dichiarazioni favorevoli al proprio cliente e come tali sanzionate dal codice
deontologico, con la sospensione dall’esercizio della professione da due a sei
mesi.
Affinchè
la condotta sia deontologicamente rilevante, secondo una recente sentenza del
Consiglio Nazionale Forense (n. 112/2012) è necessario che l’avvocato,
intrattenendosi con i testimoni, faccia “uso di argomenti ontologicamente
idonei a provocare forzature o suggestioni del teste ovvero a creare una
situazione psicologica della persona tale da alterare una non spontanea e/o
falsa rappresentazione della realtà, funzionale ad ottenere dal teste delle
deposizioni a favore della parte”.
E
il precetto deontologico di cui all’art. 55 si applica inoltre in ogni rapporto
con i testimoni (e segnatamente per quelli di controparte) “indipendentemente
dalla circostanza che gli stessi debbano rendere la testimonianza o l’abbiano
già resa” (Cnf, sentenza n. 200/2012).
Altra
regola imposta dal comma 7 dell’art. 55 agli avvocati (e ai soggetti
eventualmente delegati) è quella di non corrispondere alcun compenso o
indennità sotto qualsiasi forma ai testimoni (anche se la disposizione recita
testualmente “alle persone, interpellate ai fini delle investigazioni”). Resta
salva, in ogni caso, la facoltà di rimborsare le spese debitamente documentate.
La violazione di tale ultimo dovere comporta l’applicazione della sanzione
disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da
sei mesi a un anno.
Marina Crisafi (da
studiocataldi.it del 7.6.2015)